Lavanderie nere come il carbone
L’infanzia è il periodo della vita più radicato nella mente (oltre che il più rimosso, vedi la teoria freudiana dell’amnesia infantile). Se nei primi anni si sono verificati abusi psicologici e fisici, questi continuano a rivivere nel presente condannandoci a una schiavitù del passato, che la psicoanalisi può curare. Un percorso impensabile per Bill Furlong (Cillian Murphy), commerciante di carbone nella repressa provincia meridionale irlandese del 1985. Non era il tempo, non era il luogo, Furlong non avrebbe nemmeno avuto i soldi, sempre contati, e necessari a tirare avanti onestamente una famiglia con cinque figlie. Bill è il protagonista di Piccole cose come queste, fiaba noir, basata sul libro della scrittrice irlandese Claire Keegan (Piccole cose da nulla, Einaudi, 2022), già autrice del racconto The quiet girl, da cui è tratto l’omonimo film di Colm Bairéad, una delle più belle e sottovalutate pellicole del 2022, in cui a una bambina è impedito di amare e essere amata dall’egoismo familiare.
Tim Mielants – autore di Peaky Blinders, serie di grande successo, ancora di ambientazione irlandese e con lo stesso protagonista, Cillian Murphy –, ha scelto per Piccole cose come queste un genere classico, senza impennate registiche per restituire in purezza una storia di diritti civili violati, consumata fino a tempi impensabili all’interno dell’Unione europea: il 1996. Si tratta delle Case Magdalene, i conventi-prigione, nati a metà 1700, ma gestiti da suore cattoliche per incarico del governo dal 1922 al 1996, lasso di tempo in cui si stima che vi siano state rinchiuse circa diecimila ragazze con la “colpa” di essere rimaste incinte e di essere state abbandonate dal padre del bambino. Qui venivano relegate dalle famiglie di origine per “penitenza e riabilitazione” e lavoravano fino allo sfinimento, soprattutto nelle lavanderie industriali interne, dove fornivano manodopera gratuita con un trattamento fisico e psicologico disumano, venendo infine private dei neonati, dati in adozione. Non è una storia cinematograficamente inedita. L’ha raccontata Stephen Frears in Philomena nel 2013 e Peter Mullan in Magdalene (2020). Ma qui per la prima volta il punto di vista è quello di un uomo che rischia la propria tranquillità economica e familiare per sfidare un sistema di potere, soddisfacendo un bisogno di giustizia interiore. Una sfida civile dunque – il film è prodotto da Matt Damon e Ben Affleck, due che di cinema civile se ne intendono –, ma anche un percorso interiore.
Durante un rifornimento al convento nella solitudine dell’alba, Bill trova nel deposito del carbone Sarah (Zara Devlin), una ragazza scalza, infreddolita e terrorizzata. Lei gli confida che sarà a costretta a partorire lì e lo prega di portarla via con sé. Bill rimane sconvolto, ma riaccompagna Sarah dentro al convento. La madre superiora, Suor Mary (Emily Watson), accoglie la giovane come se si fosse smarrita e rassicura Bill che sarà nutrita e pulita. Per la prima volta il carbonaio viene accolto tra le mura inespugnabili del convento, invitato da Suor Mary, che gli offre del tè e parla suadente del futuro scolastico delle figlie di lui nell’ottima scuola annessa al convento.
Quando Bill torna a casa, la sua vita è ancora più tormentata dai fantasmi. Il cognome che porta, Furlong, è quello da ragazza della madre, che non si è mai sposata e che è si spezzata la schiena, fino a morirne, in una famiglia abbiente, la cui capostipite aveva un debole quasi parentale per quel bambino maltrattato dai coetanei proprio a causa del cognome.
Natale è vicino e le feste agiscono da trigger emotivo, si direbbe in gergo corrente (e perturbante in psicoanalisi), ovvero uno stimolo che attiva vecchie emozioni, sensazioni o memorie antiche. A Natale, ricorda Furlong, la signora benestante, proprietaria della villa di cui lui e la mamma occupavano l’ala della servitù, non era riuscita ad aiutare Babbo Natale a fargli avere il dono che avrebbe voluto, un semplice puzzle, nonostante Bill avesse confidato alla donna il desiderio. Piccole cose ha portato a casa un premio alla Berlinale dell’anno scorso, quello alla migliore recitazione per Emily Watson, fredda e calcolatrice anima cinica e politica, convinta di agire nel bene. Anche Cillian Murph, già premio Oscar per Oppenheimer, con la sua apparente immobilità di espressione interpreta perfettamente quello che si chiama freezing, ovvero il sentimento di congelamento che si manifesta con la pietrificazione davanti a un abuso o un trauma subito, o davanti al ricordo di esso. Non riesce più a distinguere tra sonno e veglia (come un altro bellissimo film, Corpo e anima di Ildikó Enyedi, vincitore della Berlinale nel 2017).
Fonte: Il Sole 24 Ore