Le Povere creature sono vere leonesse
Vincono le favole e la denuncia sociale in questa 80esima edizione della Mostra del cinema di Venezia, che l’assenza dello star system hollywodiano per lo sciopero degli attori e degli autori, ha trasformato in una grande arena di dibattito sul valore del cinema anche nostrano, complice Favino con la sua pulsione all’“italianità” . Ha vinto meritatamente Povere creature! di Yorgos Lanthimos che ha messo d’accordo tutti, dal Presidente di giuria, Damien Chazelle, cui piace il cinema musicale, sogno e incubo, (vedi Whiplash, 2014, e La La Land, 2016) e la critica.
È un film perfetto per l’angolo acuto con cui affronta il tema del femminismo, di sostanza e ironico, la recitazione in appiómbo di Emma Stone – una “Candide” assemblata alla Frankenstein maniera -, la sceneggiatura senza sbavature di Tony McNamara e i fantasiosissimi costumi di Holly Waddington. Bella Baxter (Stone) è una giovane donna cui è stato impiantato il cervello di un neonato dallo scienziato Willem Dafoe. La rapidissima crescita intellettuale della ragazza si manifesta in un approccio liberatorio attraverso il sesso e nell’opposizione convinta alla possessività maschile e all’ingiustizia sociale. Meritatissimo il Gran premio della giuria a Evil does not exist di Ryusuke Hamaguchi, che l’Oscar per Drive my car non ha trascinato verso la magniloquenza, come spesso accade. La sua piccola storia è ambientata in Giappone, vicino a Tokyo, dove in una sparuta comunità montana un progetto di glamping (camping di lusso) potrebbe alterare l’equilibrio dell’ecosistema. Il film, inizialmente concepito come accompagnamento alle musiche della compositrice Eiko Ishibashi, diventa un affilato confronto tra l’avidità dell’uomo e la risposta della Natura offesa.
L’argento per la regia va a Io capitano di Garrone, fiaba noir sul viaggio di un ragazzo di sedici anni senegalese, Seidou (Seydou Sarr, giusto premio Mastroianni), attraverso il deserto, il carcere-lager in Libia, la rotta per l’Italia su una nave di cui lui stesso diventa capitano (ecco il titolo). Tra Grimm e Collodi, ma anche “romanzo” di formazione, terribilmente vero con qualche punta surreale (l’angelo che lo porta dalla mamma quando è esanime per le torture), è un film molto bello, ma non all’altezza del talento visionario di Garrone, che ha sbaragliato gli schemi con Gomorra e Reality. E non tira un colpo sotto la cintura come Confine verde di Agnieszka Holland, cui è stato tributato il premio speciale per la giuria (troppo poco). Quei profughi con la pelle scura, gettati come proiettili di notte da un confine all’altro tra Polonia e Bielorussia in una illegale e silente guerra fredda, ha fatto uscire dal cinema gran parte degli spettatori con l’occhio vitreo. La pellicola, in bianco e nero, forse per scelta documentaria, ha delle incongruenze di sceneggiatura: prima si segue il percorso di una famiglia siriana e di una donna afgana, poi il passaggio di testimone passa troppo bruscamente a Julia (Maja Ostaszewska), psicologa che decide di diventare attivista e infrangere le leggi dello Stato per quelle della solidarietà. Ma questo non toglie che colpisce nel segno perché Julia siamo tutti noi dentro al cinema, inchiodati alle nostre responsabilità di essere umani.
Meno condivisibili gli altri premi, come la coppa Volpi per il migliore attore a Peter Sarsgaard in Memory di Michel Franco, che con questo film dimostra di saper cambiare pelle rispetto all’esplosivo Nuevo orden ( Leone d’argento nel 2020). Sarsgaard e Jessica Chastain si fondono in un amore istintivo, seppur guidati da sentimenti opposti: lei ricorda ogni giorno gli abusi subiti da bambina, lui nulla perché è afflitto da demenza senile precoce. Sarebbe stato più giusto il premio a Caleb Landry Jones, giustiziere simil jocker di Dogman per un Luc Besson tornato alle origini sul solco di Léon e Nikita.
Piuttosto sconcertante poi la Volpi femminile a Cailee Spaeny, la protagonista di Priscilla di Sofia Coppola, scivolata lamentosamente nella biografia della ex moglie di Elvis Presley con un film piatto, anche se lo sguardo di Coppola sul kitsch è sempre notevole. La scenografia va al Pinochet vampiro di El Conde di Pablo Larraín che continua a eternarsi nei lutti e nei ladrocini dopo la sua scellerata dittatura in Cile, mangiando cuori congelati e succhiando il futuro ai posteri. Larraín torna satirico e dissacratore, ritrovando la cifra di Post mortem in bianco e nero, ma insiste troppo in una narcisistica bravura, che diventa un limite al respiro del film.
Fonte: Il Sole 24 Ore