L’economia digitale cresce e arrivano investitori stranieri
La notizia risale all’immediata vigilia di Natale ed è passata probabilmente inosservata, ma l’acquisizione del 51% di Wda, venture building fondato dall’imprenditore seriale Roberto Macina, da parte della holding di investimento Next4, è una tappa importante nel percorso di sviluppo dell’ecosistema dell’innovazione nazionale. Lo è perché una cosiddetta “fabbrica di start up”, e quindi un soggetto privato che aiuta le nuove imprese a crescere, passa di mano e rafforza un modello, quello delle exit dei venture builder per l’appunto, considerato da molti come una delle chiavi per accelerare il successo delle imprese tech. Ma quante sono, quanto valgono e come sono configurate oggi le “fabbriche del digitale” nel nostro Paese? Una risposta molto dettagliata a questo quesito emerge da una recente ricerca realizzata da Infocamere (la società delle Camere di Commercio per l’innovazione digitale) e Università di Padova.
Oltre 67mila imprese
Il dato a cui fare riferimento per capire la dimensione di questo fenomeno è il seguente: 67.887. Tante sono le società di capitali attive nell’economia digitale a vario titolo, dall’ecommerce alla produzione di software passando per i servizi Internet e per la consulenza. Rispetto al dato di consuntivo del 2020, il salto in avanti è stato del 23% (erano infatti poco più di 55mila nel primo anno di Covid) con una distribuzione geografica che privilegia il Nord (dove hanno sede il 75% delle imprese) rispetto al Centro-Sud.
In aumento i soci esteri
L’analisi ha quindi rilevato come la presenza di soci esteri (provenienti in particolare da Gran Bretagna, Svizzera e Stati Uniti) nella proprietà di queste imprese sia in forte crescita e come tale tendenza sia da accogliere con favore per ciò che concerne il processo di rinnovamento e transizione del Paese. Il numero di imprese digitali in cui è presente una persona giuridica estera è infatti passato dalle 1.834 unità di quattro anni fa alle 2.465 di oggi (e nel 70% dei casi il socio estero detiene la maggioranza delle quote), con un’incidenza sul totale salita dal 3,3% al 3,6 per cento. «I dati – ha osservato in proposito Paolo Ghezzi, direttore generale di InfoCamere – sono eloquenti perché ci dicono che le società partecipate da investitori stranieri generano oltre il 21% del valore complessivo della produzione, confermando l’apertura in chiave internazionale del nostro sistema economico. La presenza di soci esteri, seppur contenuta in valori assoluti, porta inoltre con sé pratiche gestionali più evolute e una spinta all’innovazione da non sottovalutare, perché la contaminazione delle culture imprenditoriali spesso è la chiave per il successo sui mercati globali».
Valore della produzione a 103 miliardi
Numeri alla mano, il valore della produzione complessivo di tutte le imprese digitali attive nella Penisola ha conosciuto in effetti un vero e proprio boom a cavallo del periodo pandemico, lievitando nel complesso dai 59,8 miliardi di euro del 2018 ai 102,9 miliardi di fine 2022, mentre il contributo delle realtà partecipate da soggetti stranieri è passato da 13,4 a 21,9 miliardi. Paolo Gubitta, ordinario di Organizzazione aziendale all’Università di Padova, che ha supervisionato la ricerca, ha evidenziato il peso crescente dei soci non italiani, rimarcando come il capitale straniero si concentri in prevalenza «nelle imprese digitali di maggiori dimensioni e, quindi, con strutture manageriali più evolute e con maggiori potenziali di sviluppo oltre i confini nazionali» e come, in ogni caso, le imprese con maggiori possibilità di incidere sulle traiettorie di sviluppo dei settori in cui operano siano quelle con soggetti esteri nel proprio capitale. In prospettiva, secondo l’esperto, è comunque altrettanto significativo un altro dato all’interno di questo quadro generale, vale a dire il peso delle aziende con proprietà interamente italiana, che fra il 2018 e il 2022 hanno visto crescere l’incidenza sul valore della produzione dal 77% al 79 per cento. «Il segnale – ha sottolineato Gubitta – è chiaro e indica un recupero della rilevanza delle realtà totalmente locali». C’è, per contro, un indicatore che non può essere sottovalutato, per altro ben noto e che richiama il concetto di nanismo dimensionale del nostro ecosistema. Nel periodo 2018-2022, infatti, la differenza delle traiettorie di investimento delle aziende a completa proprietà italiana rispetto a quelle con soci esteri è molto marcata e tale gap è evidente anche nel giro d’affari, con 1,3 milioni di fatturato medio (anno 2022) per le imprese “made in Italy” e 8,9 milioni per quelle partecipate da socio straniero.Quanto alla corrispondenza fra nuove generazioni e innovazione, la ricerca conferma come tale connubio sia più che mai reale: nelle imprese digitali italiane, infatti, il 47% dei soci ha meno di 50 anni e gli over 70 rappresentano circa il 9% dell’azionariato, mentre in quelle non digitali le due percentuali sono rispettivamente del 38% e del 16 per cento.
Tre soci su quattro sono uomini
Ma se il mondo dell’innovazione è un mondo giovane, non è però necessariamente allineato alla parità di genere, visto e considerato che tre quarti dei soci è uomo (il 73%, rispetto al 27% di donne) e che nelle imprese non digitali le quote rosa superano invece il 33% (quasi 7 punti percentuali in più). «Se qualcuno pensava – ha commentato Gubitta – che le imprese digitali aiutassero a superare la segmentazione orizzontale e permettesse un maggiore equilibrio di genere rimarrà deluso». E la domanda che pone il docente dell’Università di Padova lascia aperta la discussione: ce lo possiamo (ancora) permettere?
Fonte: Il Sole 24 Ore