L’educazione femminista di Tambudzai – Il Sole 24 ORE
A otto anni Tambudzai si sveglia prima dell’alba, canta il gallo quando è di ritorno col suo bidone d’acqua sulla testa, e al sorgere del sole è già nel suo campo a zappare, ripulire, arare il podere grigio e sabbioso in cui si erano stabiliti i suoi nonni dopo aver dovuto lasciare le terre mature agli “stregoni”: i bianchi. Lavora senza sosta fino alle dieci, quando è l’ora di andare a lavorare il non meno duro terreno della sua famiglia fino a sera, e poi aiutare in cucina, lavare, spazzare, occuparsi delle sorelle più piccole.
Ha deciso di coltivare il campo semiabbandonato che era stato di sua nonna quando suo padre le ha detto che non c’erano i soldi per pagarle la retta della sua scuola. L’anno prima il raccolto era andato male: il poco che avevano guadagnato doveva servire per pagare quella del fratello, e serviva anche che lei lavorasse nei campi al suo posto, mentre lui era a lezione. «Puoi cucinare i libri e farli mangiare a tuo marito? Resta a casa con tua madre. Impara a cucinare e a pulire. Coltiva le verdure», si era sentita rispondere quando rivendica gli stessi diritti del fratello. «Questo mestiere di donna è un fardello pesante», le aveva detto la madre, una donna sottomessa e arresa il cui sguardo talvolta si faceva silenziosamente feroce. «Come potrebbe non esserlo? Non siamo noi che portiamo in grembo i figli? Quando è così, non puoi semplicemente decidere “oggi voglio fare questo, domani voglio fare quello, il giorno dopo voglio essere istruita”! Quando ci sono dei sacrifici da fare, sei tu a doverli fare».
È così che, furiosa, e resa ancor più furiosa dal fratello che non smetteva di dimostrare a lei e a sé stesso che aveva il potere e l’autorità di far fare alle sorelle il lavoro al posto suo, Tambudzai aveva chiesto una manciata di semi al padre per poter coltivare il campo di sua nonna. Col raccolto voleva pagarsi gli studi, e una volta istruita diventare come suo zio, che avendo avuto la possibilità di studiare era ora il preside della scuola della missione. Il padre rifiuta, ma la madre lo convince che, anche se non funzionerà, non può impedirglielo, la testarda figlia non lo avrebbe mai perdonato. Come molte madri però si premura a prepararla alle delusioni, scoraggiandola quando lei vorrebbe solo essere sostenuta: «Pensi di essere così diversa, così migliore di noialtri? Accetta la tua sorte e goditi quello che puoi. Non c’è nient’altro da fare.
Con questa lotta commovente – caparbia, cieca, forsennata – di una bambina che vuole disperatamente emanciparsi dalla povertà, dalla razza, dal genere e realizzare quello che è un potenza, una lotta che è la lotta di tutte le donne e le persone discriminate del mondo per poter essere libere, per poter avere un ruolo nella società, per poter essere ascoltate, almeno viste, per potere essere loro stesse, o perlomeno quello che vorrebbero essere, e non quello che altri pretendono da loro, si apre uno dei grandi classici della letteratura postcoloniale: Nevrosi, della scrittrice dello Zimbabwe Tsitsi Dangarembga. Scritto nel 1988, un anno prima che Kimberlé Crenshaw coniasse il termine di intersezionalità per descrivere le sovrapposizioni tra diverse forme di discriminazione, è uno dei 100 romanzi che hanno cambiato il mondo secondo la Bbc.
Quanto ottimismo… Il testo, appena ripubblicato, ha certo una potentissima carica trasformativa e ancora sorprende per la sua lucidità, la sua lungimiranza, ma anche per la freschezza e la sua attualità: ben poco nella sostanza ci pare mutato in 35 anni! I suoi straordinari personaggi femminili ancora oggi si dibattono nelle stesse battaglie di allora.
Fonte: Il Sole 24 Ore