l’eredità di Louisa Alcott nelle eroine Meg, Jo, Beth e Amy

l’eredità di Louisa Alcott nelle eroine Meg, Jo, Beth e Amy

Jo, il coraggio di sognare

La vera drama queen della storia, sognatrice e fantasiosa, Jo è la creativa della famiglia, colei che sceglie le battaglie da combattere (e poi le combatte). È il punto di vista attraverso cui si leggono le situazioni, quel collega che ha l’autorità per dire “questo progetto fa schifo”, “quel cliente è incoerente”. Gliene capitano di tutti i colori non tanto per sfortuna, ma perché se le va a cercare: sembra che tutti i suoi desideri non si realizzino (ma alla fin fine sono talmente grandi che sarebbe davvero difficile vederli tutti “belli e fatti”) ma poi si scopre che ci sono modi non immediati per aggirare i problemi ed individuare nuove soluzioni creative. La figura di Jo ci ricorda altre tre cose: la prima (che ribadisce Andrea Febbraio, guru del digital marketing) è che bisogna sempre sognare in grande. La seconda è che esistono più soluzioni ad uno stesso problema (e per un punto possono passare infinite rette). La terza è che la leadership è un talento (per quanto innato) che non deve mai smettere di essere alimentato.

Beth, la scelta di amare

Ricordatelo: quello che nelle storie ci lascia le penne si identifica subito e con grande facilità. Beth è troppo buona per essere vera: mai un lamento, umile, santa martire. Anche troppo – viene da dire. La sorella inferma, che si ammala per aver aiutato una famiglia bisognosa e contraendo per questo una grave malattia, al tempo incurabile – è un personaggio che sembra fuori tempo già alla fine dell’800. Nel nostro tempo, tuttavia, ci sono molti valori che sembrano antiquati (ma che un perché ce l’hanno e vale ancora la pena di farci un pensiero). La mansuetudine, ad esempio. Non sempre è necessario lottare. Non sempre è necessario alzare polveroni. Talvolta basta solo lasciare andare, avere pazienza, perché le cose cambiano, come cambia tutto. E perché in un’epoca in cui tutti alzano la voce, urlando di più si crea solo una gran confusione. Lo dico da figlia di padre mansueto.

Amy, l’eleganza di danzare

La piccola di casa, frivola ed esteta, tutta pianti e grandi ambizioni da raggiungere, a un certo momento si redime e va a prendersi ciò che desidera, sbaragliando la concorrenza, puntando all’obiettivo, mettendo a frutto le proprie capacità (che forse tutti avevano un po’ sottovalutato). Amy è il pianista sull’oceano che accende la sigaretta con il calore delle corde, è il sogno della start up che non vende fuffa e che rivoluziona il mercato, è la meta inaspettata che ribalta il risultato al 79’. Lo ammetto, Amy mi piace più delle altre, perché se Meg, Jo e Beth sono modelli già visti, già immaginati, Amy sbaraglia questa credenza e ci dice che (ieri come oggi) i modelli ce li creiamo da soli e sono modificabili, adattabili ai contesti mutevoli. Non esiste una sola leadership, non esistono molte volte giusti e sbagliati: Amy ci insegna a stare pronti. Non cauti, pronti. A cogliere le opportunità, a rimetterci in gioco quando tutto sembra perduto, a scoprire talenti nuovi, a valorizzare quelli che sembrano inutili. Amy è il fattore sorpresa delle nostre vite e delle nostre professioni. Lasciamole spazio di azione.

Insomma, sembra che Alcott abbia voluto affidare al romanzo di crescita e formazione femminile per eccellenza il compito di raccontare qualcosa di eterno (il divenire umano). E oggi abbiamo tutti una paura tremenda dell’eternità. Per non parlare di quella del cambiamento. Rileggo Piccole Donne e mi sembra di scardinare quella paura, almeno in qualche tratto, e vi propongo di fare altrettanto, sentendoci propriamente – tutte e tutti, a prescindere da provenienza, genere o età – sorelle.

*Consulente di Newton Spa

Fonte: Il Sole 24 Ore