Lettera dall’isola dei giganti – Il Sole 24 ORE

Ai piedi delle cascate – tra boschi fitti di cedri giapponesi coi tronchi dritti come alberi di navi, la magnifica corteccia rossobruna e i piccoli aghi grassocci e brillanti avvolti a spirale – si distendevano laghi cristallini sopra ai quali planavano candide e affilate le sterne e trovavano rifugio diverse specie di uccelli migratori. Lì attorno, come ovunque ci fosse ombra e acqua, crescevano tappeti di taro selvatico, con le sue enormi foglie a cuore, chiamate anche orecchie d’elefante. Elefante africano, sicuramente, per quanto sono ampie. Foglie più grandi ancora del rabarbaro gigante, che pure qui cresceva. Tanto grandi e tanto simili nella forma a quelle delle violette selvatiche che, procedendo fra loro o tra gli altissimi muschi, mi pareva di avere raggiunto le dimensioni di un elfo, o di una lumaca, e come questa di occhieggiare con le antenne al di sopra delle mammole.

Tanto ero immersa in questa stupefacente bellezza, tanto ogni cosa attirava e inghiottiva il mio sguardo, che in certi momenti mi sono dimenticata di esistere, ed era un dolce scomparire. Quando m’inoltravo per le strade che s’arrampicavano sui coni dei vulcani e che erano l’unico modo per attraversare l’isola, perché la costa è in numerosi punti impervia, alla mia destra e alla mia sinistra scorrevano le alte siepi d’ortensie come un corteo d’accoglienza regale, che inclinava il capo al vento. Se s’interrompevano, era per lasciare lo spazio ai fiammanti gigli dello zenzero kahili dalle lunghe foglie lanceolate e dalle sontuose spighe di fiori gialli che diffondono nell’ombra un profumo intenso e dolcissimo simile a quello del caprifoglio. Tra questi scintillava a volte il rosso vermiglio della crocosmia aurea, che i britannici chiamano anche falling star, stella cadente, o il violetto mortale della digitale purpurea. Ivi crescevano rigogliose essenze polinesiane, tibetane, giapponesi, africane, australiane, giunte nel periodo che seguì le grandi esplorazioni marittime: così definiscono i viaggi che aprirono la via alle spietate razzie di risorse, terre, tesori e soprattutto vite umane, compiute dagli imperi europei che sull’isola – scoperta una cinquantina d’anni prima che Colombo scambiasse i Caraibi per l’India – si rifornivano e ristoravano, così come i pirati. Qualunque fosse il luogo d’origine delle piante, avevano tutte foglie turgide e verdissime, nutrite com’erano da quelle vette austere che sollevavano dall’Atlantico centrale grandi masse d’aria umida, facendole condensare e ricadere in pioggia sulle pendici che precipitavano verso fondali fino a 5mila metri sotto al livello del mare.

Le acque che circondavano l’isola non erano meno sorprendenti di questa: 23 tipi diversi di cetacei vi erano stati avvistati, un terzo di tutte le specie del mondo. Quelle più grandi che solcano il pianeta: le balenottere azzurre, comuni e boreali, e le megattere – che vi passavano ogni primavera dirette al Polo Nord dove il krill è abbondante – e i capodogli, i globicefali, le orche, gli zifidi e diverse specie di delfini, che si potevano vedere tutto l’anno, scrutando la superficie dell’oceano dove tutti i toni dell’azzurro, del violetto, del grigio e dell’argento si sovrapponevano via via che si allungava lo sguardo fino all’orizzonte o lo si spostava attraverso i punti cardinali. Sopra era un dispiegarsi di nuvole prodigiose, fantasiose, arzigogolate di intrecci e stratificazioni. A testimoniare le processioni dei giganti del mare, anche l’architettura del porto principale, su cui proiettava la sua ombra la ciminiera della fabbrica dove le enormi carcasse dei capodogli erano smembrate e sciolte in olio.

Solo i numerosi leprotti erano piccoli in quell’isola… E ora, proprio ora che ve lo scrivo, finalmente capisco! La regola di Foster è la spiegazione! Quel principio della zoologia noto anche come regola dell’insularità, secondo cui i membri di una determinata specie tendono a diminuire o aumentare le proprie dimensioni nel tempo a seconda delle risorse a disposizione. Anche se oggigiorno è contestata nella sua generalità, spiega l’impressione che ho avuto di rimpicciolire: non ero divenuta piccola io, è Flores un’isola di giganti!

«La geografia per noi conta tanto quanto la storia» scriveva un poeta nativo di tale rarefatto arcipelago, Vitorino Nemésio, di sé e dei suoi compatrioti: «come le sirene abbiamo una doppia natura, siamo di carne e di pietra». Un po’ di quegli scogli devono essere rimasti anche in me: me ne rendo conto ora che sono tornata in questo mondo dove la ricchezza si concentra sempre di più, e noi diventiamo davvero più piccoli e indifesi; dove ogni giorno bisogna ingegnarsi per mantenere almeno il controllo delle nostre menti. Amaramente rimpiango quando mi perdevo nei mille toni di azzurro e di grigio dell’oceano e del cielo; nel chiacchiericcio notturno delle berte, nell’ipnotico osservare il loro superbo, nettissimo volo a filo d’acqua; un’acqua solcata dalle piccole ma letali caravelle portoghesi, dalla lugubre vela bordata di viola; nelle gioiose coreografie dei delfini, che si chiamano per nome, a ciascuno un fischio differente. Capisco ora i marinai che si tuffavano per seguirli negli abissi, delfini o sirene che fossero. A ben poco è servito copiare lo stratagemma di Odisseo, farsi legare all’albero della nave. Dal viaggio di Ulisse non si fa mai davvero ritorno.

Fonte: Il Sole 24 Ore