Lieve Totentanz per chiudere la nostra estate
Il nome di Rudolf Stolz non è rimasto nella storia dell’arte, poiché della storia l’intera sua esistenza nega l’idea. Si potrebbe considerarlo alla stregua di quei musicisti che giorno dopo giorno componevano, per una corte o per una chiesa, contraddanze e mottetti, soli Deo gloria e paghi del proprio artigianato. Era nato a Bolzano nel 1874, figlio di un pittore e decoratore; aveva due fratelli, pittori e decoratori a loro turno.
Per tutta la vita, che fu lunga e operosa, ha affrescato volte, pittato cappelle, disegnato fêtes galantes contadine, dipinto carte da gioco e cartigli e arlecchini e favole con la volpe e con l’uva e timidi idilli campestri sulle pareti di case, alberghi, locande. Le belle figure sulla facciata del Farbenhaus Amonn a Bolzano, in piazza del Municipio, sono sue. Non andò mai più lontano di Milano, di Breslavia, di Danzica; la commissione più importante della sua vita furono gli affreschi per la stazione di Innsbruck, che le bombe alleate ridussero in macerie. Una volta, negli anni Venti, le sue opere transitarono nel padiglione della Secessione di Vienna, con la quale poco aveva da spartire. Era piccolo di statura, robusto, silenzioso; ebbe cinque figlie, una delle quali pittrice; suonava il Zither viennese e il violoncello; la madre gli aveva insegnato l’italiano, ma con gli anni lui se l’era scordato; aveva scarsa propensione per le cose pratiche, il denaro, le strategie per ottenere lavoro. Morì a Moso nel 1960: nel piccolo ma esemplare Museo Rudolf Stolz di Sesto c’è una fotografia della processione funebre.
È quasi mezzogiorno e il Totentanz nella rotonda riceve il riverbero del sole di fuori. Sette personaggi, il re, la beghina, il contadino, il neonato, il viandante, la giovane sposa, il vescovo, vengono raffigurati con i loro attributi e presso ciascuno è la Morte, spoglia o carica di falce e clessidra, e fa da compagno. I tenui colori dell’affresco, dove il tono terroso è graffiato da lame d’azzurro, spogliano di ogni connotazione macabra il racconto. La Morte è una figura sinuosa, mobile, tremolante, fatta di gelatinosa materia indistinta intorno alla struttura scheletrica, ed è ironica e gentile: regge al vescovo il pastorale, abbraccia il viandante, spenge con le dita la candela alla beghina. E più l’occhio si abitua alla scena, più si leggono le frasi in tedesco nei cartigli, proverbi e sentenze sull’ultima ora, più il tempo si ferma nella contemplazione e si rasserena, e più si viene colti da sgomento. La tenerezza della Morte che regge il neonato e gli canta la ninnananna, “Dormi dolce angioletto, ti desterai in Paradiso”, mette i brividi. Quelle figure, affrescate nel 1924, sembrano caricarsi di un’eredità antichissima, il genere del Totentanz germanico, i demoni medievali nelle pievi, qualcosa di atavico, di precristiano: e di spaventevole. Non è la Morte a venire riassorbita nel ciclo della vita, ma la vita a confessare quanto sia fragile, caduca, grottesca nel darsi tanta importanza, di fronte al molcere seducente della Morte, che sempre ha la meglio.
Un passaggio aperto nel perimetro della rotonda e siamo di nuovo a cielo aperto: è il camposanto di Sesto, il più colorato e scintillante di festa che si possa immaginare. Sulla facciata della chiesetta le statue della Madonna e dei santi brillano di verde, di blu, di scarlatto. Il cimitero, contornato dalle cappelle di famiglia (alcune delle quali sono affrescate da Stolz) e gremito di croci in ferro battuto e foglia d’oro, è un meraviglioso giardino botanico dove, ancora una volta, nulla di maligno può accadere. Le figure scolpite hanno volti e complessioni di montanari forti, la vernice luccica sotto il sole a picco. Un gruppo scultoreo di ingenuo realismo svela il corpo nudo dei dannati circondati dalle fiamme: sembra che danzino e le donne hanno labbra scarlatte e zinne opime. La musica è il frinire degli insetti. Intorno a noi, altissime, le cime eterne dei monti.
Nella chiesetta una pittura che adorna un vecchio orologio recita: “Omnes vulnerant, ultima necat”, “Tutte feriscono, l’ultima uccide”, ed è mentre leggiamo queste parole che suona il mezzogiorno.
Fonte: Il Sole 24 Ore