L’ingegnere delle miniere che lavora per trasformare il carbone in fertilizzanti

L’ingegnere delle miniere che lavora per trasformare il carbone in fertilizzanti

La nuova via del carbone passa per i fertilizzanti. E le altre trasformazioni che non prevedono combustione né emissioni. Una sorta di rivoluzione in nome dell’ambiente con l’obiettivo di salvare il «patrimonio infrastrutturale» dell’ultima miniera di carbone presente in Italia. 

Le tre vite della miniera

Gian Matteo Sabiu, ingegnere di 52 anni, dal 2006 lavora alla alla Carbosulcis Spa, la società controllata dalla Regione Sardegna e titolare delle concessioni dell’ultima miniera di carbone, dove è responsabile del settore ingegneristica e coordinatore di tutte le verifiche che si svolgono in sottosuolo. Dal controllo dell’aria alla solidità delle centine e delle aree in cui intervenire seguendo un percorso che si sviluppa in 4 pozzi (due profondi mezzo chilometro e due 350 metri) e decine di chilometri di gallerie carrabili o percorribili con vagoni. Del sito minerario più importante d’Italia ha vissuto tutte le fasi: quella del riavvio, la crisi con l’annunciata chiusura, il piano di dismissione e ora la nuova vita con le attività alternative.

Il rilancio nel 2006

«Sono stato assunto nel 2006 quando è partito l’allora piano di rilancio con l’inserimento di 104 giovani – racconta – all’epoca era ripartita la produzione e c’era stato l’inserimento di nuove forze qualificate: ingegneri, geologi e periti minerari». Le prime settimane di gennaio l’accensione del taglio del carbone lungo la direzione “Ovest 2” e un programma di rilancio della miniera che in quegli anni contava 550 dipendenti tra minatori, tecnici e amministrativi. Qualche anno più tardi però la crisi e l’annuncio della fermata. Poi l’occupazione a mezzo chilometro di profondità, infine (nel 2014) il piano di chiusura controllato per evitare l’apertura di una procedura di infrazione per aiuti di stato. «Per evitare la procedura si è concertato un piano per la dismissione controllata – ricorda l’ingegnere – che prevedeva lo stop alla produzione nel 2018». Nel frattempo è partito anche un piano che ha portato all’esodo di circa 400 persone «senza che nessun licenziamento».

Le alternative per salvare gallerie e pozzi

 «A quel punto si è reso necessario lavorare su soluzioni alternative – argomenta – per evitare che il patrimonio infrastrutturale e di competenze potesse essere perso, anche perché, per costruire le discenderie camionabili, i pozzi con le gabbie (gli ascensori) sono stati spesi parecchi miliardi di vecchie lire». Da qui l’idea di studiare soluzioni alternative. Poi l’interlocuzione con l’Unione europea con una proposta: «Abbiamo chiesto di poter utilizzare le infrastrutture con nuovi progetti, per evitare di tombare le gallerie». Alla fine il riscontro positivo. «C’è un benestare, ma a condizione che  non si utilizzino le risorse erogate per la dismissione, per i nuovi progetti». Le proposte non sono mancate: dal progetto Aria per la distillazione dei gas rari e isotopi lungo la verticale di uno dei pozzi portata avanti dalla Fondazione Aria, sino al brevetto «della Carbosulcis» per la produzione di fertilizzanti dal trattamento del carbone. 

Fertilizzanti dal carbone

«Questa può essere una formula, non solo per utilizzare i “finissimi del carbone” che ci sono abbancati – argomenta – ma anche per la prospettiva». Motivo? «Se il progetto si concretizza è chiaro che sarà necessario riprendere, seppure in quantità molto ridotte, l’estrazione del carbone – argomenta – che naturalmente non potrà avvenire come in passato ma consentirà di mantenere in piedi sia l’impianto infrastrutturale sia la stessa azienda». Una sfida che Sabiu, che i giorni scorsi ha partecipato con la delegazione Filctem alla commemorazione della tragedia di Marcinelle, vuole giocare sino in fondo. «Sono convinto che seguendo questa strada possa esserci un futuro all’insegna dell’ambiente, sia per l’attività mineraria sia per il carbone».

Fonte: Il Sole 24 Ore