L’insulto alla collega colpevole di essersi fidanzata non giustifica il licenziamento in tronco
No al licenziamento per giusta causa del lavoratore che insulta pesantemente la collega dopo averle fatto i complimenti per essersi fidanzata. A vedersi riconoscere dalla Cassazione l’illegittimità del licenziamento in tronco è stato un lavoratore di un’importante casa automobilistica che, forse anche per gelosia, dopo aver rivolto alla collega gli auguri e i complimenti per un felice fidanzamento ha immediatamente cambiato tono, prima insultandola e poi minacciandola di fare una brutta fine. Arrivando a spintonarla almeno in un paio di occasioni mentre la collega si avviava all’Ufficio del personale per denunciare l’accaduto e le ingiurie ricevute.
Aggressione riprovevole ma non sufficiente alla cacciata del dipendente
Per la Corte di cassazione, però, la cacciata del lavoratore per giusta causa dall’azienda non era legittima perché non era passato a vie di fatto. Anche se il comportamento del dipendente con l’aggressione verbale nei confronti di una donna è socialmente riprovevole, questo ha certamente rilievo disciplinare ma non va a ledere il rapporto di fiducia con il datore di lavoro. Pur se oltraggioso e volgare secondo il comune sentire, con riguardo all’aspetto soggettivo, rimproverabile a titolo di dolo, le ingiurie del lavoratore nei confronti della collega non rappresentano un reato, essendo stato il reato di ingiuria depenalizzato.
Il pensiero dei giudici
Nella causa, spiega la Cassazione, non c’è dunque un problema di violazione del parametro normativo di violazione del codice civile e delle regole di comune e civile convivenza nella realtà sociale che condanna qualsiasi forma di violenza, anche verbale, nei confronti delle donne. La sentenza impugnata dal lavoratore, spiegano i giudici del Palazzaccio, «ha dato atto della rilevanza disciplinare della condotta, realizzata mediante l’utilizzo di termini umilianti e dunque con modalità volte a creare scandalo ed attuata con premeditazione e perseveranza del lavoratore di offendere la collega ma, sulla base di un accertamento di merito (per mezzo del quale è stato ritenuto trattarsi di un comportamento non seguito da vie di fatto e che aveva leso unicamente la normalità ed il decoro dei rapporti interpersonali sul posto di lavoro) e di valutazioni giuridiche non contrarie a norme di legge (e cioè che la condotta non integrava fatti di reato né aveva determinato condanne in sede penale generatore di discredito per la personalità morale del lavoratore ovvero era espressione di recidiva), ha ritenuto che la stessa non si rivelasse incompatibile con il permanere del vincolo fiduciario che deve caratterizzare la relazione lavorativa».
Il diritto al reintegro e a una sanzione conservativa
La Cassazione ha così accolto il ricorso del lavoratore che aveva impugnato la sentenza d’appello che gli negava di fatto il reintegro sul posto di lavoro in quanto il suo comportamento rientrava nei confini di un diverbio senza passaggio alle vie di fatto per il quale il Contratto collettivo prevede una sanzione conservativa per ogni mancanza che porta pregiudizio alla disciplina, alla morale, all’igiene o alla sicurezza dello stabilimento o della sede di lavoro e dei lavoratori ad esso addetti conseguentemente, si obiettava che era improprio ogni riferimento alla proporzionalità della sanzione espulsiva.
Fonte: Il Sole 24 Ore