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L’ondata dei brand anti woke non travolge (per ora) l’Europa
Ogni idea, ogni svolta, ogni balzo in avanti inizia con un singolo punto di partenza. Ma alla fine quel punto, unito ad altri, genera cose meravigliose. Strizza l’occhio alle rivoluzioni tech e al gioco di squadra in ottica di inclusione lo spot realizzato da OpenAI per il Super Bowl, decretando l’approdo definitivo nell’età dell’intelligenza. «L’uomo oggi è al centro e siamo all’alba di una nuova era», ha affermato a The Verge Kate Rouch, nominato primo chief marketing officer del colosso americano.
Può sembrare un paradosso per chi mastica di tecnologia, ma la scelta dell’azienda di approdare alla platea generalista da oltre centoventi milioni di telespettatori va anche oltre la necessità di rendere il tema più pop. Alcuni lo hanno definito un manifesto programmatico inclusivo, altri un pitch in prima serata per ingraziarsi tutta la popolazione. Per comprendere la mossa di marketing si tira in ballo la necessità di smarcarsi dalla “bro-culture” e quindi da quella cultura maschilista tipica delle big tech e che oggi sembra andare per la maggiore. Proprio di questo è stata accusata OpenAI per via della mancanza di quote rosa nel consiglio di amministrazione, come ha scritto anche la Cnn. Ma lo spot, costato 14 milioni di dollari per 60 secondi di messa in onda, rappresenta un modo per allungare le distanze rispetto al pensiero sovranista di Elon Musk, che ha messo sul piatto 97.4 miliardi di dollari per accaparrarsi la società.
Guerre di posizione
“Ci sarà un’ondata di marchi anti-woke”, ha scritto The Drum. Al netto della presa di posizione di OpenAI qualcosa sta cambiando e i venti anti-woke, concetto coniato nella sua accezione positiva nel 2018 da Ross Douthat sul New York Times, stanno soffiando nei posizionamenti dei brand. È un dietrofront? Ossia queste spinte stanno generando crepe nelle politiche di inclusione e di attenzione all’ambiente delle aziende, arrivando a minarne le fondamenta valoriali? E ancora, i mercati – e quindi i consumatori, anche quelli della generazione Z da sempre più sensibili al woke capitalism – hanno girato lo sguardo altrove?
Una risposta univoca non c’è, ma dobbiamo chiederci se il contagio potrebbe estendersi alla cultura europea, minando le certezze degli ultimi anni. Però da noi i dati vanno in altra direzione per il Diversity Brand Index, ricerca presentata in anteprima sul Sole24Ore e che misura il livello di inclusività dei brand per i consumatori valutando l’impegno reale delle organizzazioni sulla DEIA, acronimo che sta per diversità, equità, inclusione e accessibilità. Questo aspetto si conferma un elemento chiave per il 69,5% degli acquirenti, determinante per le scelte d’acquisto.
Intanto il numero di brand associati al concetto di inclusione cresce del +65%. Una coerenza rispetto all’impatto economico: le organizzazioni più impegnate, presenti con continuità nella top 10 della ricerca, registrano un +24% nella crescita ricavi. «È la dimostrazione come l’inclusione non sia solo un valore sociale, ma anche un vantaggio competitivo. Queste scelte influenzano il mercato e rafforzano la fiducia. I brand che hanno compreso il valore della DEIA stanno guardando con diffidenza i venti che arrivato dall’America e forse sono ancora più convinti nel confermare i propri investimenti. Saranno le aziende meno mature ad avere la tentazione di tirare il freno, rallentando un driver di crescita fondamentale», afferma Francesca Vecchioni, presidente della Fondazione Diversity.
Fonte: Il Sole 24 Ore