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L’orrore della rivoluzione in un grande romanzo
Le prime pagine di quel capolavoro sottovalutato che è Sotto lo sguardo del leone, l’esordio di Maaza Mengiste, prontamente pubblicato nel 2010 da Neri Pozza e ora valorizzato dalla splendida traduzione di Anna Nadotti, possono sembrare abbastanza ordinarie. Hailu, un chirurgo tutto d’un pezzo, scrupoloso e dedito alla sua professione proprio come ci si aspetterebbe da lui, opera un ragazzo con la schiena perforata da un proiettile dell’agguerrita milizia dell’imperatore etiope Hailé Selassié. Non camminerà mai più. È il 1974 e, mentre una carestia attanaglia il Paese, nella capitale gli studenti si ribellano contro la corruzione del governo e lo sfarzo indifferente in cui vive il negus. Hailu teme che il suo figlio più giovane, Dawit, faccia la stessa fine del suo paziente. Non rientra quasi più la sera, si è unito alle proteste e non vuole sentire ragioni: la speranza, per lui, può venire solo dall’azione. Hailu si rammarica anche che la sua adorata moglie, Selam, lo lasci solo ad affrontare il figlio ribelle, il prediletto di lei. La donna è ricoverata nel suo ospedale, ha un cuore esausto e vuole solo morire. Nonostante, da giovane, Hailu avesse promesso a Selam che l’avrebbe lasciata libera se se ne fosse voluta andare, ora non riesce a mantenere l’impegno. Di nascosto dal marito, ma non dall’altro figlio, Yonas, Selam da tempo ha smesso di prendere le medicine.
Mentre la famiglia di Hailu è tormentata da questo strazio privato, Addis Abeba ribolle: in ospedale arrivano sempre più feriti e militari, Dawit legge il libretto rosso di Mao e sente impellente il bisogno di lottare in nome di chi è troppo povero e oppresso per rivendicare i propri diritti fondamentali, un istinto che ha fin da ragazzino, quando, sentito il gemito di una bambina, aveva riempito di botte Fisseha, il figlio dei vicini, scoperto mentre usava la madre della bambina, domestica della sua famiglia, come schiava sessuale. A motivarlo, è anche il contenuto delle lettere che gli scrive il suo amico Mickey, quasi un fratello per Dawit da quando questo, orfano di padre, aveva chiesto a Hailu di adottarlo. I militari che hanno sostituito il primo ministro, dimessosi dopo un ammutinamento, hanno infatti inviato Mickey nella regione d’origine della zia per fare un rapporto sulla carestia, per verificare se sia davvero sotto controllo come sostenevano i funzionari imperiali. Mickey descrive a Dawit quelle che erano le «terre ondulate della sua infanzia», all’epoca un rigoglioso mosaico di fertili campi verdi e marroni, ora disseccati: «Chiazze di terra scura e screpolata erano state scavate nel paesaggio piatto e riarso». Punteggiano «la terra morta come cicatrici, buche scavate da mani disperate, in cerca di radici avvizzite e insetti o anche solo di una pietra da tenere in bocca che rammentasse alla lingua il volume del pane».
A questo punto, dopo aver imbastito nei primi capitoli il grande affresco di personaggi femminili e maschili, con le loro diverse prospettive e storie, pubbliche e private, che continueranno a ingigantirsi e a intrecciarsi man mano che il romanzo si dipana attraverso una trama serrata e ricca di colpi di scena, succede qualcosa di narrativamente inaspettato. Mengiste descrive Mickey parlare a un funzionario locale mentre davanti a loro c’è un «bimbetto con la testa più grossa del resto del corpo, rannicchiato in una postura di spossatezza che solo i vecchi dovrebbero conoscere. Posava il cranio ossuto sui polsi fragili e fissava il vuoto, la bocca pendula e sdentata albergava le mosche». Mickey prende appunti, vuole scrivere a Dawit che ad Addis Abeba mangiano troppo, che la sua pancia rotonda ha «un che di osceno in quella landa di carcasse putrefatte e fame inumana», che si sente in imbarazzo perché vorrebbe solo andare a divorare quel che si era portato dietro per il viaggio. Poi chiede al funzionario se non sia il caso di portare quel piccolino da qualche parte. Sconsolato, questo risponde che «sua madre l’ha lasciato lì a cercarsi qualcosa da mangiare, ma non c’è nulla», allarga le braccia, «come se il paesaggio fosse una tavola vuota», osserva infine che, per giunta, è scoppiato il colera e «tira dritto senza degnare di un’occhiata il bambino». La stessa cosa che fa Mengiste: passa ad altro, senza più tornare a parlare del piccolo. Sappiamo che Mickey ha delle provviste, ci aspettiamo che le dia a lui. O piuttosto che non le dia a lui. Che questo fatto lasci un segno nel romanzo. Eppure no. Possibile che un’autrice tanto attenta al dettaglio, alle ripercussioni psicologiche, tanto abile nell’intrecciare una miriade di fatti significativi in una storia coesa, si dimentichi del bambino? Lo faccia divenire un ramo morto, un moncone nella narrazione? Lo fa, ma l’effetto è che chi legge rimane ferito, intrappolato nel dolore. Si trova così a rimuginare su un tale vuoto, sul bambino che in mezzo a tanti discorsi appassionati è lasciato lì, a terra, a morire di fame. E lentamente si rende conto che è attorno a questo vuoto che gravita il romanzo. Un tema che ricorre in tante variazioni, con cui si confrontano molti personaggi: è il dilemma che si crea, specialmente in società non ugualitarie, tra l’aspirazione a salvare tutti e il desiderio di proteggere sé stessi, i propri cari, le persone in carne ed ossa che si hanno davanti.
Mengiste, nata nel 1971 ad Addis Abeba e poi scappata con la famiglia proprio nel 1974, descrive in questo modo l’implosione del suo Paese, di cui ha ritratto invece la resistenza agli italiani nel romanzo successivo, l’altrettanto splendido Il re ombra (Einaudi 2020). La scintilla è un documentario che mostra i contadini morire di fame nelle campagne: l’imperatore è deposto e poi ucciso. Ma i ribelli si rivelano più terribili del negus e della sua cerchia. I personaggi sono così costretti a scelte dolorose, anche chi vorrebbe solo affidarsi al destino, al suo dio. Alcuni, come Darwit, decidono di combattere, prima il potere “divino” dell’imperatore, poi la dittatura sanguinaria che si è installata in nome della rivoluzione, rischiando la propria vita, ma anche quella dei famigliari e degli amici, e – nel tentativo di rovesciare il regime – provocano un’atroce repressione. Altri preferiscono credere che i cadaveri che il Derg, il governo militare “provvisorio”, abbandona per le strade, impedendone persino la sepoltura, siano un male necessario per la transizione dal potere imperiale e borghese al comunismo, e si schiereranno dalla parte del più forte. Altri ancora cercano disperatamente ogni modo per proteggere i propri figli, i propri genitori, i propri amici, o anche solo di seppellire i morti ai bordi delle strade, lasciando ”gli altri” sullo sfondo delle loro azioni.
Attraverso la contrapposizione tra l’interesse dei singoli e delle famiglie e quello della collettività – che non è certo netto, con l’interesse personale che tende comunque a prevalere travestito da interesse pubblico – l’autrice “mette sotto sforzo” e fa ingranare i meccanismi alla base di quella complicata macchina che è una società. Nella tensione tra pubblico e privato, tra individuo e società, tra interiorità ed esteriorità, tra l’essere madri, e padri, e l’essere figli, tra radici e aspirazioni, Mengiste costruisce uno splendido romanzo capace di scavare nella natura umana e delle relazioni famigliari e sociali. Smentendo chi è convinto che questa forma letteraria sia ormai morta.
Fonte: Il Sole 24 Ore