Marco Pantani, il mito più forte del tempo

Marco Pantani, il mito più forte del tempo

Ognuno di noi ha il suo personale ricordo di Marco Pantani. Quello più inciso nella memoria mi riporta proprio a quel 14 febbraio di vent’anni fa. Era un sabato sera di San Valentino, né freddo, né piovoso. Come adesso, uno di quegli inverni d’oggi che non fanno più male. Con un certo tepore che prelude già alla primavera. In cui si può uscire senza coprirsi troppo.
C’era quella strana euforia da sabato speciale. Con il carnevale agli sgoccioli e la festa degli innamorati da celebrare. Coi locali pieni di ragazzi che vogliono divertirsi, far festa. E rimandare i cattivi pensieri. Che in quel 2004, anno bisesto come questo, arrivano dai telegiornali con la feroce guerra in Afghanistan e il macabro delitto di Cogne sempre in primo piano. Niente social, però. Facebook era appena nato, e ben pochi avevano capito quanto ci avrebbe cambiato la vita.

Ero a cena anch’io, con amici, come capita al sabato sera. Squilla il cellulare.
“Ci sei ?” mi dice con voce inquietante, Daniele Biacchessi, caporedattore di turno a Radio 24. “Scusa, ma è arrivata poco fa una notizia strana, che ha dell’incredibile: è morto Marco Pantani. L’hanno trovato senza vita in una stanza di un residence a Rimini. Non si capisce bene che cosa gli sia successo. Si parla di cocaina, di spacciatori… Era lì, da due giorni, chiuso da solo in camera come un eremita. Ma tu, che lo conosci bene, parlaci di Pantani, siamo in diretta, vai…”

Ancora adesso, a ripensarci vent’anni dopo, sembra impossibile che sia andata così. In quel modo, in quel posto, a Rimini, in mezzo a gente che ride e si diverte, mentre lui era solo come un cane. Sapevamo tutti, nell’ambiente del ciclismo, che Marco stava male. Che era depresso e non voleva più sentire nessuno. Che aveva tentato di disintossicarsi in una clinica di Merano. Che si negava ai suoi amici più intimi, perfino a Felice Gimondi, suo presidente.
Lo sapevamo, ma facevamo un po’ tutti finta di niente. Come quando c’è un parente o un amico che non sta bene. Ci pensi, hai una fitta allo stomaco, mai poi vai oltre. Anche perché Pantani era ormai fuori dal giro delle corse. Gli ultimi guizzi li aveva avuti nel 2002, quando al Giro aveva aiutato Stefano Garzelli a conquistare la maglia rosa. E poi al Tour de France, dove per due volte aveva battuto Lance Armstrong, nuovo arrogante padre padrone delle corse, cui anni dopo verranno tolti ben sette Tour per doping, la peste chimica che in quegli anni aveva colpito il ciclismo.

Non solo il ciclismo, certo. Ma sul ciclismo aveva infierito come le cavallette. Squalifiche, vittorie cancellate, retate della polizia negli alberghi dei corridori, inchieste della magistratura. Ad ogni Giro e ad ogni Tour, dopo una vittoria importante, non si sapeva mai cosa scrivere. Facevi la figura dell’ingenuo. Il timore era quello che qualche giorno dopo saltasse fuori che quella magnifica impresa fosse farlocca, macchiata dal doping. Non ci si fidava più di nessuno, insomma. La drammatica vicenda di Pantani aveva poi fatto saltare il tappo. La gente continuava a volergli un bene enorme, perchè Pantani era Pantani, però l’amarezza restava. E anche i dubbi.

Quando si parla Marco Pantani, uno dei campioni dello sport in assoluto più amati, diventa difficile mantenersi equilibrati. Rievocarlo è come toccare un filo ad ad alta tensione. E valutare con freddezza pregi e difetti, perfino 20 anni dopo, non è concesso perché con Pantani o si è con lui o è meglio lasciar perdere. Ha dato troppe emozioni, troppe sofferenze. Pantani il Fenomeno, Pantani il Pirata, Pantani lo scalatore, Pantani contro tutti, Pantani contro sé stesso. Tutto da solo, tutto in proprio. Con rivali solo occasionali.

Fonte: Il Sole 24 Ore