Marco Perini di Avsi racconta la guerra e l’umanità tra le rovine”

La fuga dei disperati

Il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha esortato i connazionali a lasciare il Libano. Molti hanno accolto l’invito, ma altri hanno deciso di restare. Perini spiega cosa ci sia dietro a questa scelta non facile: «Il nostro non è solo un lavoro o un’esperienza professionale. Se così fosse me ne sarei già partito insieme alla mia famiglia con il primo volo disponibile. Quello che stiamo facendo – insieme a me in Avsi ci sono altri quattro colleghi italiani, un belga e un centinaio di libanesi – è qualcosa di più importante di un lavoro: è una testimonianza, una forma di condivisione, è la speranza di poter fare qualcosa. È riconoscenza nei confronti di un paese che mi ha accolto 17 anni fa. Ammetto, però, che la fatica dal punto di vista umano è grande».

C’è un dato che Marco Perini definisce «incredibile» e utilizza per dare l’idea dello stato in cui versa il Libano oggi: «Ci sono circa 120mila persone che sono arrivate al punto di cercare scampo in Siria! Molte sono le stesse persone che erano fuggite dal regime di Assad per non essere vittime della repressione o per non finire in carcere e ora ritengono che sia meglio e più sicuro riattraversare il confine. E vi assicuro che in Siria si fa la fame, eppure è così. Tra questi disperati ci sono anche 40-50mila libanesi, persone che abitavano nel Sud del Libano, nella valle della Bekaa, o alla periferia di Beirut».

Tensioni, crisi e anticorpi

Il Libano è un paese di profughi e di migrazioni. Profughi e sfollati causati dai conflitti interni, profughi in fuga dai conflitti esterni e accolti: palestinesi prima, siriani poi: «Rappresentano tra il 20 e il 25% della popolazione», sottolinea il dirigente Avsi. Anche questo è un dato che ha dell’incredibile, ancora più se inserito in un contesto di pesante crisi economico-sociale. «La guerra attuale non fa che aggravare una serie di emergenze sovrapposte che già rendevano complicato sopravvivere negli ultimi anni – spiega Marco Perini -. Parlo della crisi economica senza fine, del fallimento del sistema bancario, delle famiglie che hanno perso tutto da un giorno all’altro, della svalutazione della lira libanese. Oggi paghi tutto soltanto in dollari, i dirigenti pubblici e gli insegnanti guadagnano 200 dollari al mese ma il costo della vita è come quello in Italia. Nel 2019 l’esplosione del porto è stata una specie di colpo di grazia per un paese senza un presidente, con un governo cronicamente provvisorio e con Hezbollah che di fatto è uno stato dentro a uno stato che non c’è».

Per molti osservatori la preoccupazione ora è che l’accumularsi di tensioni possa far ricadere il Libano in una guerra civile. Uno scenario da scongiurare a ogni costo, secondo Perini: «Il Libano ha fatto del multiconfessionalismo la sua peculiarità e la sua forza, ma non si può negare il rischio che questo stesso elemento ora possa rivelarsi incendiario. Per fortuna credo ci siano ancora gli anticorpi necessari che emergono attraverso gesti di solidarietà trasversale, come la donna cristiana maronita che porta cibo agli sfollati sciiti. Certo, però, che la prima condizione necessaria per evitare una degenerazione delle tensioni è che si fermino le bombe. Altrimenti ci troveremo di fronte a una guerra ta poveri pronta a trasformarsi in guerra di religione».

Hope for Lebanon

È in questo quadro che opera Avsi, Ong attiva dal 1972 presente in 42 paesi con oltre 300 progetti di sviluppo. «In Libano siamo presenti dal 1996 con numerose azioni a sostegno della popolazione – dice Marco Perini -. Con l’aggravarsi del contesto abbiamo lanciato la campagna Hope for Lebanon , che ci ha già permesso di aiutare 10mila persone sfollate distribuendo cibo, acqua, coperte, materassi, e fornire supporto psico-sociale. Quest’ultima è un’attività fondamentale tanto quanto un pasto caldo, soprattutto nei confronti di bambini traumatizzati dalle esplosioni e impauriti per qualsiasi rumore. I bambini hanno bisogno di giocare, di essere spensierati, di vivere da bambini. Non devono diventare piccoli adulti precoci. Cerchiamo di fare il possibile e se ci riusciamo è grazie all’amicizia e all’aiuto di molte persone e al legame profondo tra Italia e Libano. Novemila persone possono sembrare tante, ma sono un piccolo numero rispetto al bisogno che c’è; soprattutto, è un bisogno che non si esaurirà con la fine delle ostilità».

Fonte: Il Sole 24 Ore