Maria Lai con un filo supera l’oceano
Tutta la vita a dipanare matasse, a svolgere e creare nodi, intrecci, garbugli, labirinti e ghirigori di fili sparsi, orditi e trame, a “tessere” e ad “essere” e poi, eccola qui, Maria Lai, vecchia e (umilmente) consapevole della sua grandezza artistica – della quale non dubita oggi più nessuno e che, anzi, d’ora in poi è destinata solo ad accrescersi –: la fotografa Daniela Zedda le mette in mano i fili del gioco del “ripiglino”, che i bambini fanno e sanno da sempre: e lei, invece, che traffica con i fili da decenni, non solo non lo ha mai fatto, ma adesso non può fare a meno di guardare, per l’ennesima volta, meravigliata e scrupolosa, l’effetto che (le) fanno, quei fili che si attorcigliano nelle mani rugose eppure lisce, dita come spolette, intrichi che delineano destini geometrici, metafore della nostra condizione. Maria Lai (1919-2013) ci accoglie con questa straordinaria, intensissima, presenza in una iconica fotografia collocata appena prima di metter piede nella mostra: un monito sapienziale che sa di arcaico, e, al tempo stesso, di futuro. Sono, i suoi sguardi, le sue opere, meditazioni profonde intorno a un filo ininterrotto che, non a caso, già dal mito greco – le Moire e Aracne e Penelope – era simbolo della vita, della storie, dei legami, delle trame che si fanno fato, connessione, continuità. Unione e comunione.
La grande mostra al Magazzino Italian Art di Cold Spring (un’ora da New York, meraviglia architettonica e culturale, vera ambasciata dell’arte del Novecento italiano, merito, e lavoro incredibile, di due generosi e preziosi collezionisti come Giorgio Spanu e Nancy Olnick) si intitola «Maria Lai. A Journey to America» (fino al 28 luglio 2025). Non si tratta, però, solo della prima retrospettiva negli Stati Uniti dell’artista, che sarebbe già tanto: in oltre cento e passa opere, si ripercorre, in un allestimento particolarmente riuscito, una carriera a cavallo tra la tradizione della nativa Sardegna (e le prime tele, alcune mai viste in mostra, fondono pecore e pietre in un nitore paesaggistico di cui lei non si stancherà mai di cantare la bellezza e la forza), il dialogo con l’Arte Povera e l’influenza della cultura americana. C’è, di più e invece, il sentito omaggio e – appunto – il riannodarsi di un filo che ha che fare con la vicenda biografica di Lai: quasi un destino, che si compie ad anni di distanza. Maria Lai, in America, infatti, c’era già stata: innamorata della poesia di Walt Whitman, conoscitrice della pittura di Pollock e Rauschenberg, visita gli Stati Uniti (e il Canada) nella primavera del 1968. Non solo: porta con sé alcune delle opere per lei più significative con la speranza di esporle. E qui, per la prima volta in mostra, ci sono sette di queste opere, tra cui Notturno n.2 e Pietre (1968), provenienti da una collezione privata americana. Al ritorno in Italia, l’artista trova il coraggio di presentare i risultati delle sue sperimentazioni a Bolzano e Roma, dove, nel 1971, espone già alcuni dei suoi “Telai”, certamente le sue creazioni più note (insieme ai sublimi libri cuciti), che caratterizzano il suo “fare” artistico e morale. Strumenti, i telai, ispirati a quelli comuni utilizzati storicamente dalle donne dell’isola per creare oggetti quotidiani, tappeti, tele di corredo, spesso di elevato valore estetico ma soprattutto centrali, nella sua ispirata visione, nel descrivere la condizione (e la ribellione allo stato delle cose) della donna.
La mostra, curata da Paola Mura (neo direttrice artistica di Magazzino) propone, su due livelli, opere che arrivano da varie istituzioni (tra le quali Fondazione Maria Lai, Fondazione di Sardegna, MAN Nuoro, Regione Autonoma della Sardegna) oltre che da privati, e dalla stessa collezione Olnick-Spanu. La sensazione che va sottolineata, attraversando le sale del Magazzino, è quella di uno sguardo “nuovo” – e veramente contemporaneo – sul lavoro di Maria Lai: una raffinata antologia senza troppi affastellamenti ma con esempi mirabili del suo lavoro pluridecennale. E se nella sala finale si chiude con il commovente “arazzo-lenzuolo-libro-lettera” dell’ultima azione collettiva promossa da Lai quasi novantenne, «Essere è tessere» (realizzata nel 2008 ad Aggius, paese noto per la tradizione nel cucito) con opere tessili accompagnate da letture di Whitman, prima si era tornati a quell’esperimento fenomenale di arte relazionale (primo in Italia) del 1981, quando l’artista convinse gli abitanti del suo paese natio, Ulassai, a «Legarsi alla montagna». Collegando persone e case tra loro e “ancorandosi” tutti a una pietra arcaica, lo strapiombo maestoso del Monte Gedili, con 26 km di un nastro azzurro di tela jeans: ogni famiglia, mappando le proprie connessioni con quella vicina, testimoniava quale legame la tenesse unita, e come flebile, ma vitale, fosse la relazione, nel bene e nel male: da una casa all’altra un pane e un fiocco per indicare i membri della stessa famiglia e l’armonia, i nodi con gli amici, e nessun segno per chi aveva rapporti di rancore: una documentazione con il video di Tonino Casula e le fotografie di Pietro Berengo Gardin con interventi di Lai già presentati alla Biennale di Venezia e a Documenta.
Maria Pietra, questo il nome dell’alter ego poetico e finzionale di Maria, è il tema-figura che ricorre nei fili tenui che si annodano tra le pagine di libri-oggetto (in un allestimento mozzafiato in teche che valorizzano l’essenza di queste opere): dal suo ritorno in Sardegna, anni 90, la figura di una donna-artista che si muove in perenne ricerca: opere polimateriche, grandi lenzuoli cuciti, libri, telai: in quei fili di «Vela spaziale» c’è la vita che si protende verso nuove esperienze, nuove conquiste e memorie. Nell’arte di Maria Lai, tutto è un intreccio di ricordi, trasformazioni e tensioni verso l’ignoto: sono storie universali, narrate con dolce testardaggine, da una sorta di piccola jana, grande artista e fata potente nonostante la voce tenue e calma. Emozioni e riflessioni che toccano il cuore e la mente di chiunque le osservi, indipendentemente dal contesto storico o geografico in cui si trova: groppo che ti si attorciglia e non ti lascia. Lo stesso che ha Maria, mentre osserva, catturata, i fili nella foto alla quale si ritorna a fine mostra. Quei fili morbidi e tesi, in attesa che un altro – tutti noi –, vada a ripigliarli dalle sue dita sapienti, nel miracolo che l’arte rinnova, permettendoci di tenere per mano il sole, le parole e le altre stelle.
Fonte: Il Sole 24 Ore