Mary Oliver, poetessa a contatto con il creato
La lirica di Mary Oliver è ascrivibile al movimento letterario di proporzioni mondiali conosciuto come ecopoetry. Nata nel 1935 in Ohio e scomparsa all’età di ottantatré anni, Oliver è stata una voce notissima e molto amata negli Stati Uniti: il suo pensiero ecologista, che riannoda Whitman a Thoreau, ha mietuto parecchi consensi e le sue sillogi sono state veri e propri bestsellers, tanto che il New York Times la definì «di gran lunga il poeta americano più venduto».
Un libro dionisiaco
Cantrice del postumano (come poi sarà Jorie Graham) e della wilderness quale principio ontologico, Oliver vede nella scrittura walserianamente (o nietzschianamente) una «passeggiata», il gioioso proliferare di stati esperienziali a contatto con il creato. In Primitivo americano – prima raccolta dell’autrice tradotta nel nostro paese – si nota lo sguardo purificato della meraviglia che è poi sinonimo di distanza dal genere propriamente pastorale e di «freschezza di una percezione», come osserva Paola Loreto nel solido contributo introduttivo al testo. «Primitivo americano – prosegue Loreto – è un libro dionisiaco, dell’abbandono all’eccesso della fame, della gola e del desiderio; ed è un libro dell’esultanza per l’immersione nella proliferazione disordinata e incontrollabile della natura».
Esaltando «le sensazioni fisiche primordiali» e «la metamorfosi del non-umano in umano», Oliver prospetta una fusione panica con il mondo non nel significato dannunziano (estetico, per così dire), ma riallacciandosi alla land ethic di Aldo Leopold, cioè all’«etica della terra» che considera l’uomo semplice cittadino di essa, al pari di tutti gli altri elementi (suolo, acque, piante, agenti atmosferici) e di tutte le altre creature.
Sintomatica in tale prospettiva è la poesia Agosto, che apre il volume: «Quando le more pendono / rigonfie nel bosco, nei rovi / che sono di nessuno, io passo // tutto il giorno tra i rami / alti, allungando / le braccia graffiate, pensando // a niente, pigiandomi / il miele nero dell’estate / nella bocca; tutto il giorno il corpo / accetta quello che è. Nei ruscelli / scuri che scorrono vicino c’è / questa grossa zampa della mia vita che sfreccia // tra le campanule nere, le foglie; c’è / questa lingua felice».
La letizia
La letizia è francescanamente dalla parte dell’originarietà intatta; tuttavia Oliver intende raggiungere una «condizione pre-identitaria» capace di liquefare i confini delle cose e sacralizzare il tutto, «l’ignoto, l’inconoscibile / centro». Ciò significa che l’importanza della dimensione corporea nel suo pensiero poetante è cruciale: in I prugni si dice infatti che «l’unico modo / di indurre la felicità nella tua mente è introdurla / prima nel corpo, come piccole / prugne selvatiche».
Fonte: Il Sole 24 Ore