Mussolini e Hitler come rimedio per l’immigrazione? Tentata ricostituzione del partito fascista
I ritratti di Mussolini e Hitler suggeriti come rimedio al problema dell’immigrazione. Un consiglio dato al ministro dell’Interno che, per chi avesse scarsa fantasia, era corredato dalle immagini di vagoni in partenza per i lager con le svastiche e l’avvertenza «la locomotiva è pronta», oltre che da pallottole con la scritta «sono arrivati i vaccini obbligatori per i clandestini». Post con idee razziste e antidemocratiche, che evocavano le deportazioni e l’eliminazione fisica degli stranieri, pubblicati sul profilo Facebook dell’autore – un sottufficiale della capitaneria di porto addetto alla tutela dei confini dello Stato – che hanno trovato un grande seguito. Ed è proprio il gran numero di adesioni a un’ideologia che la nostra Costituzione ha messo fuorilegge che, per laCassazione (sentenza 3351), rende concreto il pericolo di ricostituzione del partito fascista.
Tanti i follower e i like per la «buona domenica fascista»; l’immagine di Hitler che – idealmente dialogando con il ministro dell’Interno allora in carica che si domandava come risolvere il problema della immigrazione clandestina – innalza l’indice a pugno chiuso; il «giuramento del fascista»; l’espressione, con l’effige di Mussolini, «quando l’ingiustizia diventa legge, la ribellione diventa dovere» e altre amenità del genere. La Suprema corte respinge la tesi della difesa, secondo la quale tutto questo non bastava per affermare il pericolo concreto di ricostituzione del partito fascista.
L’imputato addetto alla sicurezza dei confini marini
Per la Cassazione è invece corretta la lettura della Corte d’appello, secondo la quale l’imputato, «sottufficiale delle Capitanerie di porto, costituiva, in quanto pubblico ufficiale e rappresentante delle forze dell’ordine, un soggetto particolarmente credibile e affidabile nella prospettiva dei soggetti che con questi interagivano tramite il social network». Alla “credibilità” data dal ruolo dell’autore dei post, che vigilava anche sui confini marini della nazione, si univa la forza del mezzo impiegato. Il social, infatti, era caratterizzato da un profilo personale, ma pubblico, e costituiva dunque «uno strumento formidabile di diffusione verso un numero indiscriminato di soggetti, anche attraverso la metodica delle citazioni e dei richiami o rimandi».I post e le pubblicazioni, inoltre, erano stati «numerosi e reiterati, sicché affatto estemporanei e, dunque, idonei a persuadere i propri follower».
Ma a incidere più di tutto è la triste popolarità che l’imputato aveva acquisito. Ad avviso dei giudici, infatti, «la continua adesione manifestata da terzi al materiale pubblicato dall’imputato dimostra, per un verso, il concreto effetto conseguito dall’apologia e, per altro verso, l’ulteriore perniciosità dell’esaltazione fascista e razzista derivanti dal sostegno offerto e ottenuto dal pubblico nonché dalla crescente consapevolezza di non essere isolati nel predicare tali violente e razziste convinzioni».
La legge Scelba
La Cassazione chiarisce, dunque, che la condanna non è in contrasto con quanto stabilito dalle Sezioni unite con la sentenza 1653/2024 e con quanto prevede la legge Scelba. L’articolo 5 della legge 645/1952 ha chiarito che «il reato di apologia del fascismo postula una condotta di propaganda ed esaltazione in concreto idonea a procurare adesioni e consensi funzionali alla ricostituzione del disciolto partito fascista». I giudici di legittimità ricordano che la Suprema corte (sentenza 37859/2024) ha confermato la sentenza di condanna di un imputato, «ritratto in video e fotografie, poi pubblicati online, in cui si rivolgeva ai “camerati della rete”, invitandoli a tesserarsi a un movimento definito “fascista” e a partecipare a una manifestazione del medesimo movimento». I giudici di merito, al pari di quelli di legittimità, hanno quindi «verificato l’idoneità in concreto della condotta a porre il rischio di ricostituzione del partito fascista».
Fonte: Il Sole 24 Ore