Mussolini influencer di sé stesso fascista
Non si tratta solo di rottura della quarta parete. Il Mussolini della serie M-Il Figlio del Secolo (Sky e NOW) di Joe Wright, interpretato da Luca Marinelli, guarda in camera come un influencer. È l’antesignano del pubblicitario, vende un prodotto, ovvero l’ascesa sua e dei suoi “cani”, così li chiama, sostenitori in camicia nera, in gran parte reduci della Prima guerra mondiale. Mutilati, disorientati, frustrati dalla ripulsa della società ora vincente – che non ha voluto la guerra e non l’ha fatta– e riuniti nei Fasci italiani di combattimento fondati nel 1919. «In quest’ora putrida della pace gli uomini della guerra senza più un posto nel mondo, congedati su due piedi, come si licenzia una serva, sono i miei uomini», dice Mussolini alla macchina da presa.
Il Duce di Marinelli è un instagrammer ante litteram, un interlocutore senza contraddittorio: è lui a porgere la sua verità, come oggi certi leader politici (pioniere Salvini) “postano” sui social media il proprio messaggio, ripreso poi da giornali, radio e telegiornali. Il Duce vende la rivoluzione, dove però nell’atto collettivo è lui solo a essere messo a fuoco, nonostante, almeno fisicamente, non abbia nulla di speciale: non è atletico, né particolarmente avvenente, ma «come le bestie, sente il tempo che viene».
Wright restituisce il culto della personalità mussoliniano, trasformando il Duce nel più spiazzante dei tiktoker, da inventore, qual è, del populismo moderno (e non semplice fratello minore di Hitler). I “cani” devono stare in seconda fila, perché «materiale scadente… umanità di risulta, gli ultimi», pieni di odio e di rabbia, ottimo materiale su cui calcare per «fare la Storia». Cinematograficamente allora diventano braccia tese, sfregi in faccia, moncherini, un coro di voci che inneggia al Duce, con rari momenti di attenzione dedicata ai personaggi più estremi.
Il grande lavoro del regista e di Marinelli è quello di non empatizzare con il protagonista – come spesso accade nei film sul Male, a partire dal Padrino che piace molto ai mafiosi –, ma di restituirlo attraverso le decisioni che storicamente ha preso e le loro conseguenze. La bravura di Marinelli poi è quella di non farne una macchietta. Nei primi episodi la schiena non è ancora inarcata all’indietro, solo leggermente pronunciata la mandibola. Raffinerà la postura quando entrerà in Parlamento, perché il potere è avido di simboli. Se prima bastavano le camicie nere, man mano che la rivoluzione entra nelle istituzioni e in Parlamento c’è bisogno che il Capo si esprima con movenze ineludibilmente riconducibili a lui: i pugni sui fianchi con i gomiti allargati su gambe divaricate, il saluto romano, prestazioni vigorose. Il Duce nuotatore (nello Stretto di Messina, Grillo non ha inventato nulla), schermitore, cavallerizzo, aviatore, mietitore, virile donnaiolo. Su questo ha ragionato Sergio Luzzatto ne Il corpo del duce (Einaudi, 1998), partendo dallo scempio del cadavere di Mussolini in piazzale Loreto a Milano il 29 aprile 1945, come se fosse un rito apotropaico contro l’incarnazione di una nefasta infatuazione collettiva.
Le movenze del Duce fanno carisma, fanno sicurezza e cancellano il passato di straccioneria e di approssimazione, i fallimenti, la vigliaccheria e i tradimenti. Perché in M Mussolini è un giocatore d’azzardo con le pezze al sedere, alle prese con un popolo alla sua prima esperienza di rappresentanza politica, di delegazione, seppure limitata, della volontà elettorale. Il suo istinto a tradire è contagioso, come l’ignavia e la paura di chi tace e subisce. Il Duce vince mescolando astuzia e violenza, con la retorica barocca del giornale di cui è direttore, «Il popolo d’Italia», simile a quella del Vate D’Annunzio (Paolo Pierobon), il rivale più insidioso, cui si ispira. Anche D’annunzio sa parlare alla pancia della gente con i simboli: Fiume da riacciuffare, l’Oriente incarnato nel fidato Samurai, la fama da tombeur de femmes. Anche qui corporeità e allegorie, che il Duce risucchia, mettendo poi nel sacco il suo nemico fingendo devozione.
Fonte: Il Sole 24 Ore