Nel segno dell’Agnello: teologia in formaldeide

Nel segno dell’Agnello: teologia in formaldeide

«Agnus dei»: un simbolo arcaico che compendia in sé il mistero abissale della fede cristiana, in quanto rappresentazione del sacrificio come figura di riscatto. Alcuni commentatori suggeriscono che, «per il rapporto di agnus con agni (fuoco), è un simbolo sacrificale del rinnovamento periodico del mondo» (J.E. Cirlot, «Dizionario dei simboli»).

Raffigurato in alcune delle opere più pregevoli della tradizione pittorica europea (si pensi alla Pala d’altare di Isenheim a Colmar, ad opera di Grünewald, al Polittico dell’Agnello Mistico di Gand, di van Eyck, o a «L’agnello di Dio» di Zurbarán), si è eclissato con l’incedere del «disincanto del mondo» (M. Weber) sino a riemergere – segno evidente di un suo radicamento nell’inconscio collettivo – nella Storia Naturale («Natural History») dell’artistar Damien Hirst.

Galleria Gagosian

Già, perché nelle monumentali sale della Galleria Gagosian di Londra oggi si squaderna un percorso monografico in un utopistico museo di storia naturale futuribile, in cui, fra le creature variamente disturbanti conservate in soluzione di formaldeide, si distingue, per ricorsività, la pecora (versione “adulta” dell’agnello). Di pecore sono “fatte” – letteralmente – ben tre opere della mostra: l’iconico «I AM» (1995) e la provocante interazione fra «Our Father Who Art in Heaven» (2005) e l’irriverente trittico «In the Name of the Father» (2005).

Hirst coglie il riferimento cristiano, se ne appropria da un punto di vista iconologico, lo recupera frammentandolo – tipica istanza postmoderna – e ricomponendone il segno differenziandolo dall’originale, per impiegarlo come veicolo di shock. Questa tecnica Hirst l’ha teorizzata e applicata in numerosi luoghi della sua ricca – e per molti versi incostante – produzione artistica, ad esempio nella serie «New Religion». Senza dubbio è nostra convinzione che l’artista debba poter giocare in libertà con la sua opera, senza tabù, purché tale dialettica infine sappia farsi costruttrice di mondi – l’artista innanzitutto come oneironauta, demiurgo e mitopoieta. Quando però il mondo plasmato ondeggia in una stasi ipnotica e tanatofila, in cui la vita è assente, la morte eternata, tutto è giocato attorno alla nuda biologia, il senso di una poetica – quella di Hirst, in questo caso – merita una problematizzazione che non sia acritica.

L’esibizione di corpi animali dissezionati e conservati in sostanze chimiche può certamente suggerire numerosi concetti di estrema rilevanza speculativa o socio-politica – peraltro contrastanti, dalla meditazione sul memento mori al desiderio d’immortalità, passando per la riflessione sull’alimentazione carnivora –, ma si risolve di fatto, nell’esperienza estetica, in un abbandono di ogni suggestione simbolica: l’arte perde qualsivoglia ontologia pontificale, di mediazione fra visibile e invisibile, riducendosi al proprio stesso significante. Tutt’al più è metafora di concetti, su cui troneggiano il terrore per la corruzione e la fragilità, con il desiderio di isolare e proteggere porzioni del «mondo della vita».E l’agnello è la figura che meglio incarna questo slittamento: sanguinante, tradizionalmente simboleggia Cristo vittorioso sulla morte, nella prefigurazione di Giovanni Battista (Gv 1, 29: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!») e nel trionfo perturbante dell’Apocalisse (Ap 8, 1; 13, 8; 14, 1), è invece presentato da Hirst come vittima del proprio esclusivo decesso naturale. Privo di sangue, conservato in un ambiente asettico, salubre, purificato sul piano biochimico, il suo sacrificio non appare in alcun modo un sacrum facere, ma solo uno strazio inutile, l’approdo ultimo al nulla. Nessuna ostia, nessun banchetto, nessuna immolazione. La metafisica della luce – per cui l’agnello mistico del già citato Polittico di Gand coincide con l’emanazione del Principio, sua declinazione in forma sensibile – trapassa nella teologia nichilista della formaldeide: l’eterno presente, deprivato del sacro, si risolve nel presentismo. Una vera e propria ideologia, questa, che l’arte postmoderna potrebbe segnatamente superare accostandosi al senso intimo dell’Agnello, che palesa nella propria sofferenza presente la promessa della pienezza futura (il novum, secondo la teologia cristiana) sulla base della tradizione passata, in una triangolazione temporale in cui la morte non è esibizione della «spettacolarizzazione» (G. Debord) dell’esistente, ma compimento dell’«essere-per-la-morte» (M. Heidegger).Sulla figura dell’Agnello divino, visionarie sono molte delle pagine che il recentemente scomparso Roberto Calasso vi ha dedicato nel suo formidabile saggio postumo «Sotto gli occhi dell’Agnello» (Adelphi 2022). Qui la figura dell’Agnello viene distinta da quella del Figlio di Dio, assurgendo ad archetipo extraconfessionale e sovratemporale del sacrificio, il «silenzio cosmico» che precede la costituzione del mondo. In particolare, «il riscatto operato da Gesù è unico e ultimo, ma è stato preceduto da altri, parziali e provvisori, sin dall’inizio dei tempi, operati dal sangue di un animale: l’agnello divino, agnus Dei. Ogni volta, agli uomini era concesso, per qualche tempo, un senso di liberazione, senza impedimenti, ma presto tornavano alla condizione di ostaggi in attesa di riscatto». L’arte contemporanea tornerà a creare nel segno dell’Agnello, di fronte al suo sguardo carico al contempo di sofferenza e riscossa?

Fonte: Il Sole 24 Ore