Nel villaggio dove ebrei e palestinesi hanno scelto di vivere insieme

Nel villaggio dove ebrei e palestinesi hanno scelto di vivere insieme

Nel villaggio di Neve Shalom Wahat al-Salam novanta famiglie, la metà ebree, l’altra metà palestinesi, tutti cittadini israeliani, vivono in pace. Nonostante ciò che accade. Hanno scelto di abitare insieme: è una comunità spontanea, intenzionale, esiste da mezzo secolo. Negli anni gli abitanti hanno dato vita a alcune istituzioni, come una scuola bilingue e binazionale. Una «scuola per la pace», ha spiegato a un incontro al Salone del libro di Torino organizzato dalla Fondazione Gariwo, che in questo luogo utopico ma anche molto reale ha creato uno dei suoi Giardini dei Giusti, che «insegnano la speranza e la fiducia nell’umanità attraverso il racconto delle figure morali del nostro tempo, in dialogo contro l’odio», Giulia Ceccutti, una letterata, esperta dell’opera di Lalla Romano, che da anni collabora con l’associazione italiana che sostiene il villaggio – il cui nome significa «oasi di pace».

La scuola all’inizio aveva 11 allievi, ora ne ha 250, molti vengono da fuori. «Il nostro sistema educativo è basato sul dialogo, sulla conoscenza reciproca di entrambi i popoli», ha spiegato Nir Sharon, un abitante ebreo del villaggio, direttore della scuola bilingue e binazionale, una scuola che insegna e rispetta la storia di entrambi i popoli. «Siamo stati molto felici di vedere che anche in un periodo come questo i bambini sono tornati a scuola, felici di incontrare gli altri».

Sharon non nasconde le difficoltà, come non le nasconde Samah Salaime, giornalista palestinese e attivista per i diritti delle donne, anche lei abitante del villaggio. «Questa possibilità di incontro e di contatto umano è ciò che volevo per i miei tre figli. Il fatto che i genitori abbiano continuato a mandare i bambini a scuola, fianco a fianco con quelli che alcuni considerano “i nemici” ci ha mostrato che stiamo percorrendo la strada giusta. Per risolvere i conflitti bisogna stare assieme. La catastrofe e il dolore degli altri noi non lo cancelliamo. Per costruire la pace ed educare alla pace ci vuole tempo, sforzo. È molto più facile e più veloce educare all’odio, per fare la guerra ci vuole poco. Certo, dopo l’attacco del 7 ottobre, la sfida si è fatta più ardua e il rischio che l’odio prenda il sopravvento è grande. L’atmosfera di odio contro i palestinesi che vivono in israele è terrificante. Spesso ci viene chiesto di schierarci da una parte o dall’altra. Bisogna invece esserci gli uni per gli altri. Nel nostro villaggio, dopo l’attacco, ci siano riuniti per condividere il nostro dolore. Abbiamo chiesto l’aiuto di due facilitatori, condividiamo le storie personali. La mia, che ho amici a Gaza, persone che lavoravano nel sociale e per la salute mentale, quelle di chi ha perso parenti a Gaza, un vicino ne ha persi 70, un altro 27, e quelle degli amici ebrei che hanno perso parenti e amici nell’attentato o nella guerra. Sappiamo che non dobbiamo trascurare i valori in cui crediamo: pace, democrazia, non violenza, e sappiamo anche che non potremo avere pace se non la avranno i nostri vicini».

«Bisogna dare più spazio possibile a questo tipo di narrazione – ha aggiunto Ceccutti – le opposte tifoserie non aiutano nessuno. La pace è molto complessa, abbiamo la responsabilità di fare nostro e tenere insieme il dolore di entrambi i popoli». Sono più o meno le parole con cui il giornalista, storico e saggista Gabriele Nissim, presidente di Gariwo, aveva aperto l’incontro: «Dopo l’attentato del 7 ottobre si sono creati due schieramenti, mentre non si è creato un movimento pacifista. Anche nelle piazze oggi non si va per la pace, si va per sostenere l’uno o l’altro, quasi con l’idea che uno dei due debba fare fuori l’altro. Come ha detto Yuval Noah Harari, tra israeliani e palestinesi ci sono due narrazioni contrapposte: per il palestinese l’israeliano è quello che gli porta via l’identità e la terra, mentre l’israeliano vede nel palestinese colui che minaccia la sua esistenza. Noi che siamo terzi abbiamo questa responsabilità, lavorare per far cessare la guerra, creare una “diplomazia del bene”».

Come si può vincere l’odio, come si può non caderne vittime? Risponde la scrittrice e giornalista Manuela Dviri, che nel ’98 ha perso il figlio ventenne nel conflitto contro Hezbollah e da allora è diventata un attivista, con azioni che riuniscono le donne, le madri di entrambi i popoli, come il progetto «Quattro madri», che riuscì a far ritirare l’esercito israeliano dal Libano: «Bisogna fare delle cose, non raccontarsi quanto è triste vedere morire un figlio. Bisogna andare oltre sé stessi, liberarsi dal pensiero di “come hanno potuto farmi questo”. Questo periodo che viviamo deve essere un avvertimento su quello che l’essere umano può fare. Bisogna lavorare sull’empatia, non restare paralizzati nel dolore».

Fonte: Il Sole 24 Ore