
Nell’austero mondo marino dei falchi
«Il primo volatile del quale sono andato in cerca fu il nottolone che nidificava nella valle. Il suo canto è simile a una perdita di vino che dall’alto cade a fiotti in una botte fonda e rimbombante, un suono odoroso, con un bouquet che lievita nel cielo silenzioso. Nell’accecante luce del giorno pare più sottile e secco, ma il tramonto lo ammorbidisce e gli dà corpo. Se un canto potesse avere un profumo, questo avrebbe l’aroma di uve pigiate, mandorle e legno tostato. Il suono fuoriesce senza che nemmeno una goccia si perda. L’intero bosco ne è colmo, poi cessa. All’improvviso, di colpo. Eppure l’orecchio l’avverte ancora: un’eco prolungata, in dissolvenza, un gocciolare avvolgente tra gli alberi tutt’attorno. Nell’immobilità, fra le prime stelle e i lunghi residui bagliori del giorno, il nottolone gioioso spicca il volo».
Quando si legge Il falco pellegrino di J.A. Baker, qui trascritto nella nuova, bella, precisa e ritmata versione di Aimara Garlaschelli, lo spazio si riempie di altro spazio, il cielo acquisisce nuove profondità e si scompone in infiniti piani, solcati a loro volta da traiettorie di volo, ma anche odorose e acustiche, solo ora evidenti alla coscienza, mentre negli anfratti del bosco divenuti visibili si svelano e si dispiegano vite mai messe a fuoco. Come i grandi occhi del rapace – che se in proporzione trasferissimo nell’uomo sarebbero «larghi sette centimetri e mezzo e peserebbero quasi due chili» e che vedono con una risoluzione otto volte maggiore della nostra – riescono a catturare qualsiasi punto in movimento e, fissandolo, possono «immediatamente renderlo più nitido, schiarendo e ingrandendo l’immagine», così fa la prosa «estatica, violenta, estasiata» (Robert Macfarlane) di questo straordinario e, nonostante tutto, ancora misconosciuto scrittore di natura. Nato nell’Essex, a Chelmsford, nel 1926 e lì morto nel 1987, confessa di essere arrivato tardi ad amare gli uccelli: «per anni li ho visti solo come una scossa ai margini della visione».
Poi, però, sono divenuti un’ossessione. Per dieci anni, in ogni momento libero, ha seguito in bici o piedi, nei boschi, nelle campagne, lungo le sponde degli estuari, i falchi pellegrini che cacciavano nei cieli della sua contea. Ha allenato progressivamente il suo sguardo a cogliere la meravigliosa varietà che brulica attorno a noi impercettibile, ha studiato i comportamenti dei volatili, cercato di capire le loro interazioni con gli altri animali, ha formulato ipotesi. Poi ha distillato milleseicento pagine manoscritte di osservazioni in un solo inverno descritto con meno di sessantamila parole, liriche e ipnotiche, fortemente evocative. Osservazioni che hanno la precisione di un naturalista e l’afflato di un poeta. «La percezione del naturale è portata a un’intensità sovrumana, una profusione sensoriale attuata da una prosa febbricitante» nota Garlaschelli.
«Fra tutte le cose, la più difficile è vedere ciò che è davvero lì» osserva Baker che, nonostante la miopia e la spondilite anchilosante che lo curvava progressivamente verso il basso, non ha mai smesso di fissare il suo binocolo nel blu del cielo per leggere «l’austero mondo marino dei falchi», come lo definisce nel suo unico altro libro, il capolavoro L’estate della collina (trad. di Salvatore Romano, Gea Schirò, 2008), che anche in questo caso condensa anni di osservazioni in un’unica stagione.
Ed ha ragione Robert Macfarlane a osservare nella prefazione che lo stile di Baker è «come una sorta di visore di realtà aumentata (…) che consente una precisione di visioni e movimenti altrimenti impossibile. (…). Il paesaggio diventa una superficie che si apre intorno a noi mentre procediamo. Il cervello è messo a dura prova dal dinamismo e dalla dissonanza della prosa e gli occhi dalle geometrie straordinarie. Le profondità di campo si addensano e appiattiscono in modo imprevedibile. L’intervallo focale si espande e si appiattisce. Gli orizzonti attraggono e si ritirano».
Fonte: Il Sole 24 Ore