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Pa, dalle liquidazioni a rate mina da 4 miliardi sui conti pubblici
Sotto il terreno sempre agitato dei conti pubblici italiani è nascosta un’altra incognita da 4,4 miliardi di euro. Per ora non agita il dibattito politico come le richieste di tagliare l’Irpef o di rottamare le cartelle esattoriali. Al momento non pare occupare le prime caselle delle priorità di governo come l’intervento contro il caro bollette ipotizzato dal ministro dell’Economia Giorgetti la scorsa settimana. Ma c’è un’altra caratteristica che la differenzia da quei dossier: il suo arrivo, infatti, appare difficilmente evitabile. In discussione c’è il “quando”, non il “se”.
Tagli reali del 14,2% alle buonuscite
La questione è quella del trattamento di fine servizio a rate per i dipendenti pubblici, rilanciata lunedì scorso da un’alleanza inedita nelle dimensioni fra Cgil, Uil, Cgs, Cse, Cosmed, Cida e Codirp che hanno messo sul tavolo le stime della penalizzazione subìta dai dipendenti pubblici per la lunga attesa della loro liquidazione: chi è uscito dall’ufficio nel 2022 e 2023, anni di super-inflazione, sta vedendo la propria buonuscita media (82.400 euro) perdere 11.735 euro di potere d’acquisto, il 14,2%, con un effetto cumulato da 2,157 miliardi. Il dazio è ovviamente ancora più alto per i dirigenti, e questo spiega la fitta presenza delle loro sigle.
Il caso scatenante
A rendere ora cogente la questione però non è tanto il pressing sindacale, ma un fatto solo apparentemente minore fin qui ignorato dal dibattito pubblico. Lo si incontra in una sentenza appena depositata dal Tar Marche che, dopo aver affrontato la scorsa settimana in udienza la richiesta di un dirigente della Polizia di farsi liquidare il proprio trattamento di fine servizio da 189.633 euro senza l’attesa triennale prevista dalle norme del pubblico impiego, ha deciso di rimandare le carte alla Corte costituzionale. Dove, qui sta il punto, una bocciatura delle regole che impongono ai dipendenti pubblici di attendere anche sette anni per vedersi liquidata la buonuscita appare molto probabile.
Il rischio bocciatura
Per sostenere questa facile profezia basta guardare un’altra sentenza della Consulta sullo stesso tema, la 130 del 23 giugno 2023. Già allora i giudici delle leggi avevano scritto chiaro e tondo che far aspettare i dipendenti pubblici le rate di una buonuscita che invece nel settore privato è pagata subito in soluzione unica rappresenta un «vulnus costituzionale». In quell’occasione, con un occhio attento ai conti pubblici, la Corte aveva evitato di affondare il colpo dell’illegittimità costituzionale, sulla base del presupposto che la soluzione del problema andasse affidata alla «discrezionalità» del legislatore. Una «discrezionalità», avvertiva però la sentenza, «temporalmente limitata», perché «la lesione delle garanzie costituzionali determinata dal differimento» del Tfs/Tfr «esige un intervento riformatore prioritario».
Da allora sono passati 20 mesi, ma non è successo nulla. O, meglio, qualcosa è accaduto, ma nel senso opposto a quello che dovrebbe portare a un riallineamento con le condizioni del settore privato. Perché i disegni di legge presentati sul tema, a partire da quello di Alfonso Colucci (deputato M5S), si sono subito arenati in Parlamento di fronte ai «non possumus» pronunciati dalla Ragioneria generale dello Stato, che sulla base dei calcoli attuariali condotti dall’Inps ha calcolato i costi della cura. Proibitivi.
Fonte: Il Sole 24 Ore