Pa, la liquidazione a rate taglia l’assegno di quasi 12mila euro

Pa, la liquidazione a rate taglia l’assegno di quasi 12mila euro

Un dipendente pubblico andato in pensione nel 2022 perde 11.735 euro di potere d’acquisto sul proprio trattamento di fine servizio, che in media vale 82.400 euro: il taglio reale, quindi, è del 14,3%, perché le regole sulla buonuscita a rate che allungano i tempi dell’incasso hanno ovviamente visto il proprio impatto moltiplicarsi insieme all’inflazione del 2022-23. Ma anche in tempi di prezzi più tranquilli, il meccanismo diluito che impone di aspettare l’ultima rata del Tfs/Tfr fino a 51 mesi in caso di pensione anticipata con la legge Fornero e fino a 81 per chi è salito sui vari treni delle quote da 100 a 103, ha abbattuto il valore effettivo di questa retribuzione differita. Per lo Stato il risparmio si misura solo in termini di cassa, perché il valore nominale della buonuscita rimane invariato. Ma nei conti privati dei pensionati pubblici l’impatto va calcolato in termini reali, e si moltiplica: solo per i dipendenti usciti dalla Pa nel 2022-23, poco più di 200mila persone al netto delle cessazioni di chi cambia lavoro, la perdita raggiunge i 2 miliardi e 157 milioni di euro.

I calcoli sindacali

Si sono presentati armati di queste cifre i sindacati del pubblico impiego che in un convegno a Roma sono tornati all’attacco della liquidazione a rate nella Pa, introdotta nel 2011 dal Governo Berlusconi e poi diluita ulteriormente dagli Esecutivi di Mario Monti ed Enrico Letta nel tentativo di tamponare una crisi di finanza pubblica che le prime misure assunte nei mesi di spread alle stelle non erano riuscite a combattere.
Le cifre elaborate dal gruppo di sigle che comprende Cgil, Uil, Cgs, Cse, Cosmed, Cida e Codirp (non c’è quindi la Cisl) provano a tradurre in termini pratici gli effetti della discriminazione che nel nome della finanza pubblica ha colpito i lavoratori delle Pa, costretti ad attese che le norme del settore privato non contemplano. È «un’appropriazione indebita da parte dello Stato», tuonano i sindacati, chiedendo al Governo di mettere mano subito a questa «ingiustizia non più accettabile».

La bocciatura costituzionale

Toni diversi ma contenuti simili, del resto, si possono leggere nella sentenza 130 depositata il 23 giugno del 2023. In quell’occasione i giudici delle leggi avevano riscontrato nella buonuscita al rallentatore un «vulnus costituzionale» a cui però poteva «porre rimedio» solo la «discrezionalità del legislatore» nell’individuare le soluzioni. La Consulta non aveva trascurato «il rilevante impatto in termini di provvista di cassa» che si sarebbe prodotto con l’addio alla rateazione, più o meno lunga a seconda delle cause di uscita. Ma, Costituzione alla mano, le esigenze finanziarie del bilancio pubblico non giustificano una perenne disparità di trattamento; per cui la «discrezionalità del legislatore» sarebbe da intendersi «temporalmente limitata», e la riforma sarebbe «prioritaria» anche se potrebbe svilupparsi in modo graduale «muovendo dai trattamenti meno elevati per estendersi via via agli altri».

Ma non succede nulla

Nei 20 mesi trascorsi da quella pronuncia, però, non è successo nulla di significativo, se non qualche apertura (fin qui solo nelle intenzioni) sulla possibilità di chiedere l’anticipo della buonuscita mentre si lavora come accade nel privato. Nel frattempo, anzi, il quadro è peggiorato con l’aumento dei limiti ordinamentali a 67 anni deciso nell’ultima manovra, che nei calcoli sindacali interesserà 76.300 dipendenti pubblici fra 2025 e 2034 producendo altri 339 milioni di euro di risparmi: un’aggiunta tutto sommato piccola, in un dossier che però rimane scottante per i conti dei pensionandi e per la finanza pubblica.

Fonte: Il Sole 24 Ore