Padre e figlio morti per le esalazioni a Molfetta, confermato l’omicidio colposo

Condanna definitiva per omicidio colposo, aggravato dalla violazione delle norme sugli infortuni sul lavoro, per il legale rappresentante dell’azienda ittica di Molfetta, nella quale l’8 aprile del 2014 sono morti padre e figlio, annegati in una cisterna per la raccolta delle acque reflue, storditi dalle esalazioni. La Cassazione ripercorre i fatti che hanno portato all’ennesima morte sul lavoro.

L’assenza di manutenzione

A perdere la vita erano stati Nicola e Vincenzo Rizzi, padre e figlio di 50 e 28 anni, il primo titolare di una ditta di spurgo nella quale lavoravano anche due figli. Una squadra chiamata per ricostruire un tratto della condotta dell’impianto di depurazione delle acque che provenivano dall’opificio. Il più piccolo dei tre, Alessio, era sceso nella cisterna interrata per recuperare un tombino di ghisa di 73 kg caduto nella vasca, e si era accasciato quasi immediatamente sul fondo. Il padre non aveva esitato a calarsi a sua volta sollevando il figlio verso l’apertura dove il ragazzo era stato afferrato dal fratello e da un idraulico che assisteva ai lavori, e adagiato nel piazzale. Appena messo in salvo Alessio era stato però il padre a perdere i sensi a causa delle esalazioni. In suo aiuto era arrivato Vincenzo, che non ha però retto all’urto dei gas. Entrambi sono morti annegati tra i liquami. Per la Suprema corte (sentenza 25772) c’è una responsabilità del titolare committente, che rivestiva una posizione di garanzia.

Nessun comportamento imprevedibile degli operai

I giudici respingono la tesi del comportamento abnorme degli operai, che sarebbe stato nell’ingresso non previsto nella vasca. Ad avviso della Corte “uno sviluppo ordinariamente prevedibile per il tipo di lavoro commissionato”. L’impianto, non a norma, era, infatti, in pessime condizioni di manutenzione, visto il tempo trascorso dall’ultimo intervento. Era dunque prevedibile l’apertura del tombino, con un rischio asfissia che andava gestito.
Nè passa la censura della difesa sulla sottovalutazione da parte della Corte d’Appello di una lettera dell’Arpa che aveva fatto delle analisi, a circa una settimana di distanza dai fatti, attestando la presenza di reflui di acido solfidrico (3ppm) non nocivo nè tossico. Un dato, rilevato a distanza di tempo, che non può aver valore a fronte della chiara riconducibilità della morte ad asfissia.

Fonte: Il Sole 24 Ore