Parcella, prova «impossibile» contro le presunzioni del Fisco
In base alle ultime pronunce di legittimità, se da un lato i giudici continuano a riconoscere (come è giusto) la spettanza in capo al professionista del compenso anche per la fase di studio della pratica e la piena legittimazione dello studio professionale ad agire per la riscossione del compenso del singolo associato, dall’altro sembrano avere posizioni sempre più rigide in merito alle prove che il professionista può addurre per vincere la presunzione del Fisco sull’avvenuto incasso dei compensi a conclusione della singola prestazione professionale e, conseguentemente, sul loro mancato assoggettamento a tassazione.
La presunzione del Fisco
Proprio da ultimo, infatti, la Corte di cassazione, con l’ordinanza 24255 del 9 settembre scorso, ha detto che è legittima la rettifica di maggiori compensi nei confronti di un avvocato che non è in grado di giustificare il mancato incasso dell’onorario alla fine del suo mandato professionale.
In particolare, la Corte ha stabilito che è da ritenersi grave, precisa e concordante la presunzione addotta dagli accertatori in base alla quale il professionista, al termine dell’incarico, incassa il compenso pattuito e, dunque, emette la fattura e lo assoggetta a tassazione.
Secondo la Suprema corte, infatti, la mera sussistenza degli elementi indiziari di termine dell’incarico professionale e di assenza di dichiarazione del compenso pattuito consentirebbe al Fisco di rettificare i redditi dei professionisti ai quali spetta l’onere di provare le ragioni del mancato incasso delle somme. Ne consegue che è legittimo l’accertamento analitico – induttivo di cui all’articolo 39, comma 1, lettera d) del Dpr 600/1973 con cui l’ufficio accerta maggiori compensi imponibili in capo ad un avvocato laddove, a fronte di sentenze depositate presso uffici giudiziari e relative a controversie giudiziali in cui risulta patrocinante, non sia stato in grado di dimostrare di non aver percepito compensi mediante, ad esempio, la produzione di copie di diffide ad adempiere o di decreti ingiuntivi nei confronti dei clienti a cui la prestazione terminata si riferisce.
Difficoltà di incasso
Ai fini della prova contraria non è sufficiente, infatti, che l’avvocato adduca che dalla contabilità non risulta alcuna fattura emessa e alcuno accredito e che quindi, in base al principio di cassa, non sussisterebbe alcun presupposto impositivo. Ovviamente, la (rigida) posizione della Corte viene considerata dalla maggior parte dei professionisti anacronistica e, soprattutto, irrealizzabile. Già da tempo – a maggior ragione dopo il periodo di crisi dovuta alla pandemia – sono molti i professionisti che, pur continuando a svolgere le proprie prestazioni professionali, hanno avuto (e ancora continuano ad avere) serie difficoltà ad incassare i propri compensi. Né è pensabile che ogni volta che il cliente assistito (soprattutto se è abituale) non paga il compenso professionale a fine mandato, il professionista possa immediatamente procedere con la diffida ad adempiere o con le richieste di decreto ingiuntivo. Il buon senso e, soprattutto, una visione pragmatica dei tempi che stiamo vivendo dovrebbero indurre, prima l’amministrazione finanziaria (nelle persone dei verificatori e degli accertatori) e poi, eventualmente, i giudici tributari di merito e di legittimità, a verificare:
Fonte: Il Sole 24 Ore