Patrimonio culturale, «attaccare le aree protette è strumento di geopolitica»
Distruggere per motivi ideologici, a scopo di lucro o solo per spettacolarizzare la distruzione: gli attacchi al patrimonio culturale sono a tutti gli effetti strumenti di guerra. Nel 2014, in Siria, l’Isis decretava la distruzione sistematica di tutte le chiese di Mosul, dei mausolei e delle mete di pellegrinaggio (anche musulmano). «Da quando ha preso il via la distruzione sistematica dei siti archeologici in Iraq nel 2014 e 2015, l’Onu è intervenuto con risoluzioni che condannavano questi episodi e ribadivano la proibizione del traffico illecito. Un problema non da poco, perché in quel periodo molto materiale è partito alla volta della Turchia, poi dell’Europa e dell’America». A raccontare è Cristina Tonghini, professoressa di Archeologia e Storia dell’Arte Islamica all’Università Ca’ Foscari di Venezia, che ha condotto ricerche archeologiche in Giordania, in Siria, nello Yemen.
Professoressa, è possibile quantificare la perdita culturale di un Paese in guerra?
«È più facile nel caso della distruzione di monumenti o luoghi, meno per quanto riguarda il traffico clandestino dei beni mobili. Nel momento in cui c’è l’Isis, la guerra in Siria, la guerra in Iraq… le frontiere diventano permeabili, e gli abitanti stessi arrivano a scavare clandestinamente per guadagnare qualcosa. Alcuni studiosi hanno provato a quantificare l’entità del saccheggio dei siti archeologici durante la guerra in Siria. Le foto satellitari mostrano i siti devastati dalla quantità di scavi clandestini nelle varie aree: quelle controllate dal regime, dai ribelli o dall’Isis. Il fiore all’occhiello dell’archeologia orientale, il sito di Ebla (oggi Tell Mardikh), non è stato risparmiato. In Siria e Iraq, così ricchi di archeologia, la collocazione dei principali siti è ben nota; spesso proprio chi vi aveva lavorato, durante il conflitto è ritornato per dedicarsi al saccheggio».
Per quanto riguarda gli attacchi diretti ai luoghi, il diritto basta a scongiurarli?
«È molto articolato, frutto di profonde riflessioni da parte della comunità internazionale. Uno dei grandi problemi è legato al fatto che non tutti gli Stati sovrani hanno ratificato la convenzione dell’Aja e i diversi protocolli. Tra questi per esempio c’è, primo fra tutti, Israele. Dipende da chi sono i soggetti in causa. Nella prima guerra del Golfo, Stati Uniti e Inghilterra pur non avendo ratificato i protocolli si sono astenuti dal bombardare Ur e Ninive ritenendo di applicare una norma consuetudinaria che impone il rispetto del patrimonio culturale. Nel caso del saccheggio del museo di Baghdad nel 2003 invece, quando la coalizione occidentale capeggiata dagli Usa ha invaso il Paese, non sono stati fatti i passi necessari per mettere sotto protezione il patrimonio culturale, come invece richiederebbe il diritto dell’Aja. Così il museo è stato saccheggiato, nonostante il diritto preveda che la responsabilità della protezione del patrimonio ricada sugli occupanti».
Fonte: Il Sole 24 Ore