Pedro Almodóvar: «Ho paura della morte. Girare questo film è stato un sollievo»

La stanza accanto, con cui una settimana fa ha vinto il Leone d’oro all’81esima Mostra del cinema di Venezia, ha segnato un punto nella filmografia di Pedro Almodóvar. Settantaquattro anni – come tiene a precisare quando qualcuno arrotonda al rialzo, visto che il suo compleanno cade il 25 settembre –, quarant’anni di carriera, ventitré film, una cifra cinematografica inconfondibile per cui è stato coniato il termine almodovariano, e, prima di una settimana fa, neanche uno straccio di Palma, Orso o Leone d’oro, salvo quello alla carriera, ricevuto proprio al Lido nel 2019. Oltreoceano, a dir la verità, avevano provveduto a celebrare il suo genio ribelle e divertito, sempre sensualmente vicino ai temi fondanti, come amore e morte, con due Oscar, uno al migliore film straniero per Tutto su mia madre nel 2000 e uno alla migliore sceneggiatura per Parla con lei (2002). In Europa si era largheggiato dai Bafta ai David, dai César, ai Goya. Ma i raffinatissimi festival europei lo avevano sempre relegato a premi minori.

Arriva con la zazzera candida scompigliata, i capelli rizzati in piedi, come sempre, e una maglietta rossa, colore cui chi scrive lo associa (come accade per Antonioni), tra i tanti sgargianti che predilige. Si sforza di parlare in italiano: «Grazie tante. Sono molto stanco, ma spero non incida. Non garantisco, però, su come lavori il mio cervello adesso».

«In Italia mi sento sempre molto amato»

In sala ha ricevuto una standing ovation di quasi venti minuti, ma si schermisce: «Ogni volta che vengo in Italia mi sento molto amato». Ma qui non si tratta di affinità elettive tra Paesi latini fratelli: La stanza accanto, nelle sale dal 5 dicembre, ha vinto il massimo riconoscimento nel palmares veneziano perché è un film eccellente, su un tema molto delicato, l’eutanasia, con una sceneggiatura sobria, scritta dallo stesso regista, ispirata al libro Attraverso la vita (Garzanti, 2022) di Sigrid Nunez. «È il mio film più contenuto – spiega –. È da Julieta (2016 ndr) che mi identifico di più con questa forma di regia. Per fortuna, quando ero giovane ho fatto film molto pazzi», e ride.

Almodóvar rastrema i sentimenti, li calibra, c’è partecipazione ma non lacerazione. La sua vena barocca, con i toni tragici e comici assieme, le donne forti con i volti ostinati, gli uomini truccati, i costumi e gli arredi appariscenti si eclissano per scolpire in maniera cristallina un messaggio di umanità e di speranza. È anche il primo film di Almodóvar girato in inglese con interpreti anglofone: le star internazionali Tilda Swinton e Julianne Moore.

Swinton è Martha, una corrispondente di guerra, affetta da un cancro terminale, e Ingrid, interpretata da Moore, è una ex collega di Martha, scrittrice di fama, che riprende a frequentare l’amica appena saputo della sua malattia. Il tema centrale è la libertà: il diritto primario di poter scegliere come terminare la propria vita dignitosamente quando il dolore la rende insopportabile. «L’eredità che Tilda lascia a Julianne è il coraggio di affrontare la morte. Non credo alla reincarnazione, nel “travaso” da una persona all’altra. Ma Julianne riceve da Tilda il dono di continuare il rapporto con la figlia di lei, rigenerandolo nel nome dell’amica».

Fonte: Il Sole 24 Ore