Per le gemme la tracciabilità è ancora un miraggio

Per le gemme la tracciabilità è ancora un miraggio

Nella primavera dello scorso anno il mercato delle gemme fu attraversato da una notizia dirompente: Fura Gems, la compagnia mineraria canadese che aveva acquistato le storiche miniere di Coscuez, aveva estratto da quelle verdissime montagne del distretto colombiano di Boyacá due smeraldi enormi, da 81,2 e da 83,8 carati. Le operazioni in quella regione conosciuta da secoli per la generosità e la bellezza delle sue gemme verdi erano riprese nel 2016, dopo la firma degli accordi di pace fra il governo di Bogotà e le milizie delle Farc. L’eccezionale caratura di quegli smeraldi era però solo una delle loro caratteristiche: all’asta di Dubai dove erano stati presentati, Fura Gems aveva portato infatti il primo lotto di smeraldi interamente tracciati secondo un sistema di blockchain messo a punto dallo svizzero Gübelin Gem Lab.

Il mercato delle pietre di colore – rubini, smeraldi e zaffiri – sta crescendo a una velocità superiore a quello dei diamanti, tanto che il Natural Resource Governance Institute (ong che promuove lo sfruttamento sostenibile delle risorse minerarie) stima che entro il 2028 varrà 10 miliardi di dollari, contro i 2 del 2018. Tuttavia, sottolinea sempre l’istituto, un grave problema pesa su questa crescita: il 90% delle gemme colorate non è tracciato.

Il tema della provenienza e dell’eticità delle pietre colorate è cruciale nell’industria, ed è una delle sue sfide più urgenti e più complesse, come ha sottolineato anche Iris Van Der Veken, direttrice della Watch & Jewellery Initiative 2030, nell’intervista al Sole 24 Ore. E lo ha confermato un recente studio di Gemfields, la più grande compagnia di estrazione di gemme colorate al mondo con sede in Gran Bretagna, che ha chiuso il 2022 con ricavi record per 341 milioni di dollari (+32% rispetto al 2021).

Gemfields ha provato a stilare un quadro quanto più realistico del mercato globale delle gemme di colore, sottolineando, però, fin dalle prime righe del suo studio, delle criticità quasi insormontabili: «La sfida maggiore quando si cerca di identificare la produzione globale di gemme colorate è la mancanza di dati – si legge -. La maggior parte proviene da miniere artigianali, per cui non esistono dati ufficiali. Le grandi compagnie minerarie private non sono obbligate a diffondere i loro bilanci, ma riportano le loro attività alle autorità delle diverse nazioni in cui operano. Ma Paesi poco sviluppati, proprio quelli dai quali proviene la maggior parte delle gemme colorate, non hanno sistemi organizzati né condividono i pochi dati a loro disposizione».

Non solo. Anche quando si avessero dati certi sulla quantità di carati estratti in ogni Paese, sulla definizione della qualità delle gemme non c’è univocità: «Per i rubini – si legge ancora nello studio di Gemfields – non si possono considerare nella stessa categoria (pur se fanno parte della stessa famiglia mineralogica, ndr) il corindone rosso e un rubino di eccezionale qualità destinato all’alta gioielleria, pietre che possono arrivare a un prezzo per carato anche di 30 milioni di volte superiore». Proprio intorno ai rubini negli ultimi anni ha preso forma un problematico fronte di scontro: nel 2009, nella zona di Montepuez, in Mozambico, sono stati scoperti enormi giacimenti di rubini, dai quali proviene oggi la gran parte dei rubini di alta qualità del pianeta. Si tratta di una delle zone più povere di un Paese già molto povero, che le milizie dei “mashababos” legate all’Isis stanno provando a occupare per controllare il mercato dei rubini. Gemfields, che possiede il 75% di Montepuez, ha dovuto più volte interrompere le operazioni di estrazione per cercare di proteggere la popolazione.

Fonte: Il Sole 24 Ore