Perché il referendum sul Jobs act divide il Pd
Il meno che si possa dire è che la Corte costituzionale, decidendo di non ammettere il quesito di abrogazione totale della legge Calderoli sull’autonomia differenziata, ha scompaginato i piani di Elly Schlein. Anche se il quorum del 50% più uno degli aventi diritto sarebbe stato molto difficile da raggiungere (negli ultimi 25 anni il quorum è stato raggiunto solo una volta, nel 2011 su nucleare e acqua pubblica), agli occhi della segretaria del Pd la campagna referendaria di primavera aveva il compito di cementare attorno alla battaglia contro la legge “Spacca Italia” la futura traballante coalizione dei centrosinistra. Una coalizione divisa su molto altro, a partire dalla politica estera: appena mercoledì scorso si è visto in Aula alla Camera il solito copione sull’Ucraina, con il Pd che vota sì all’invio di armi assieme ai centristi (Italia Viva, Azione e Più Europa) e con il M5s fermamente contrario assieme ad Alleanza Verdi/Sinistra. Invece la foto di tutti i leader del campo largo davanti alla Cassazione per il deposito delle firme contro la legge Calderoli, ormai qualche mese fa, era lì a testimoniare che si poteva ripartire da un’importante battaglia comune.
Senza più l’autonomia, restano in campo solo i quesiti divisivi
E ora? Niente campagna di primavera contro il governo. A restare in campo sono gli altri cinque quesiti, tutti divisivi: quello che punta a facilitare la richiesta di cittadinanza italiana da parte degli stranieri (gli anni di residenza necessari scenderebbero da 19 anni a 5), presentato da Più Europa con il segretario Riccardo Magi, non è stato firmato da un M5s sempre attento a non intestarsi impopolari battaglie pro migranti fin dai tempi dei decreti sicurezza del governo Conte 1; e gli altri quattro contro quel che resta del renziano Jobs act, presentati dalla Cgil di Maurizio Landini, oltre ad essere naturalmente indigesti al leader di Italia Viva Matteo Renzi ed anche alla calendiana Azione, stanno provocando più di qualche mal di pancia all’interno dello stesso Pd. In pochi giorni, una vera e propria slavina.
La battaglia schleiniana contro il Jobs act per recuperare l’asse con la Cgil
Qui serve un piccolo passo indietro. Ai tempi del Jobs Act, la riforma del lavoro attesa a Bruxelles che mirava a cancellare l’articolo 18 per i nuovi assunti e al contempo ad estendere le tutele ai lavoratori autonomi e precari, Renzi era premier e segretario del partito e naturalmente tutti i democratici diedero il loro voto favorevole in Parlamento. Anche l’allora minoranza di sinistra di Pier Luigi Bersani. Nel frattempo il cuore della riforma, ossia il contratto unico a tutele crescenti, è stato fortemente ridimensionato dagli interventi della Corte costituzionale. E per di più l’effetto del referendum, se passasse, non sarebbe quello del ritorno al vecchio Statuto dei lavori ma il ripristino della successiva riforma del governo Monti, addirittura peggiorativa in materia di indennizzo per licenziamento senza giusta causa (24 mensilità invece di 36).
L’obiettivo di “derenzizzizzare” il partito…
Dunque, cui prodest? Chiaro che la motivazione principale della segretaria del Pd, che ha confermato il sostegno alla Cgil («io i quesiti sul Jobs act li ho firmati»), è per così dire strumentale: portare avanti la derenzizzazione del partito annunciata già durante la campagna per le primarie di due anni fa e, soprattutto, ricostituire l’asse privilegiato con la Cgil di Landini spostando decisamente a sinistra l’asse della proposta politica. «Sui temi economici e sociali Schlein ha registrato non solo un avanzamento elettorale ma anche una riconnessione elettorale ma anche una riconnessione sentimentale con mondi che ci avevano abbandonato – è la versione del Nazareno per bocca di uno dei fedelissimi della segretaria, Marco Sarracino -. Nella stagione del Jobs act rompemmo non solo con il sindacato (e qui si intende la sola Cgil, ndr) , ma anche con il mondo della scuola e con chi votò per il referendum sulle trivelle… Fu uno dei punti più bassi della storia politica».
… e la rivolta di cattolici e riformisti
Questione di punti di vista, certo, e nel Pd hanno sempre convissuto varie anime. Solo che mezzo partito non ci sta a veder buttare al macero la propria storia e ritiene assurdo e senza precedenti che un partito sostenga un referendum contro una riforma promossa dallo stesso partito solo pochi anni fa e solo per motivi ideologici, senza reali effetti pratici. Lo dice chiaramente il costituzionalista ed ex parlamentate del Pd Stefano Ceccanti, animatore lo scorso week end a Orvieto della kermesse dei riformisti di Libertà Eguale che ha visto il ritorno in campo dell’ex premier Paolo Gentiloni: «Il Pd che oggi va alla battaglia contro una riforma sostenuta ieri da tutto il Pd è un cortocircuito difficile da spiegare ai nostri elettori, un boomerang garantito – è l’allarme di Ceccanti -. Il mio invito è quello di ritirare la sola scheda sulla cittadinanza, non votando così sui quesiti sul Jobs act». E lo dice chiaramente anche il senatore dem Graziano Delrio, animatore della contemporanea kermesse di Milano dei cattolici democratici con Romano Prodi, Pierluigi Castagnetti e la new entry Ernesto Maria Ruffini: «Noi abbiamo approvato il jobs act, a suo tempo, per il superamento di diverse carenze nella difesa dei diritti dei lavoratori: le dimissioni in bianco, i cocopro, la precarietà, ed era previsto già da allora anche il salario minimo, battaglia del Pd. Sui punti specifici ci possono essere differenze ma non rinnego quello che facemmo, perché mandò avanti il Paese: non approvo il referendum, non mi pare che il complesso del Jobs act meriti una battaglia politica di cancellazione».
Fonte: Il Sole 24 Ore