Più open innovation, ma mancano metriche d’impatto
La stragrande maggioranza delle grandi imprese italiane (l’88% per la precisione, e la percentuale arriva al 98% se consideriamo le realtà con oltre mille dipendenti) ha adottato nel corso del 2024 iniziative di innovazione aperta e poco meno della metà (il 48%) collabora attivamente con le start up da almeno tre anni. Dati che disegnano un quadro sostanzialmente positivo del ruolo giocato dalle aziende a sostegno dell’ecosistema, confermando il trend positivo di progressivo sviluppo del fenomeno.
Solo l’8% delle imprese valuta l’impatto del digitale
A offuscare in parte questi dati vi sono però due indicatori: solo l’8% delle organizzazioni ha definito metriche per valutare in modo completo l’impatto del digitale dei propri progetti e solo il 28% ha stanziato nel corso degli ultimi 12 mesi un budget dedicato per coprire tutte le attività sviluppate in questo ambito. Il quadro sopra descritto emerge dall’ultima ricerca degli Osservatori Startup Thinking e Digital Transformation Academy del Politecnico di Milano, secondo la quale l’open innovation sta comunque rafforzando il proprio status di risorsa essenziale per esplorare nuovi trend tecnologici (lo dice il 64% delle imprese intervistate) e per identificare nuove opportunità di business (il 44%).
Mainetti: «Crescerà il ruiolo delle start up»
In linea generale il quadro è positivo e, a detta di Stefano Mainetti, responsabile scientifico dell’Osservatorio Startup Thinking, «nei prossimi tre anni le aziende riserveranno sempre maggiore attenzione a fonti esterne e diversificate per integrare nuove idee e tecnologie per rispondere in modo più dinamico alle sfide del mercato. E in quest’ottica è destinato a crescere il ruolo delle start up». Start up che, allo stato attuale, sono utilizzate come fonti di innovazione dal 27% delle aziende (dopo università e centri di ricerca, società di consulenza e vendor tecnologici ) e sono coinvolte principalmente come fornitori spot di soluzioni o in veste di partner per co-creare prodotti e servizi, a dimostrazione di una certa capacità di adattamento delle grandi imprese nel valorizzare le competenze di queste realtà.
Resta il nodo delle Pmi
Il problema, sicuramente noto e non di facile soluzione, riguarda le Pmi. Sono infatti una minima parte del totale (l’8%, secondo le rilevazioni dell’Osservatorio) le piccole e medie imprese che hanno avviato progetti con start up o che intendono farlo nel prossimo futuro mentre ben il 71% conferma di non esserne interessato o di non considerare al momento questa possibilità. I casi di eccellenza non mancano, e uno di questi rimanda all’iniziativa di Agritalia, realtà napoletana specializzata nell’esportazione di prodotti alimentari italiani negli Stati Uniti che nel 2025 avvierà lo sviluppo di un progetto di investimento (denominato Agriventures) di due milioni di euro in tre anni per start up foodtech, health e wellness, ma secondo gli esperti i dati raccolti suggeriscono come molte imprese non percepiscano ancora chiaramente le opportunità di queste relazioni. La crescita dell’open innovation è dunque più lenta e contenuta nelle aziende medie e piccole (vi ricorre nel complesso il 31% delle Pmi) e fra le iniziative più adottate spiccano quelle che internalizzano idee e progetti nati all’esterno attraverso collaborazioni con università (nel 72% dei casi), scouting di start up, hackathon e contest.
Tra le strategie di “outbound” votate a valorizzare le innovazioni nate internamente e da sviluppare all’esterno, invece, è interessante rilevare come le più diffuse siano la creazione di piattaforme digitali e le joint-venture (succede in un caso su cinque) e il corporate venture building (vi ricorre il 12% delle imprese) ispirato all’attività degli start up studio e delle fabbriche del digitale. Per lo strumento del corporate venture capital, invece, non è ancora giunta l’ora del vero e proprio decollo. Sebbene le partecipazioni in essere riguardino oltre 5mila (circa un terzo del totale) delle imprese innovative operanti in Italia, solo il 20% delle principali 50 società della Penisola ha istituito un fondo di Cvc (spesso gestito da venture capital indipendenti) e solo il 36% di queste svolge in modo continuativo attività di investimento nelle start up. In uno scenario caratterizzato da incertezza e crescita limitata, l’intenzione di spendere nel digitale per cogliere nuove opportunità di business, come ha rilevato Alessandra Luksch, direttore degli Osservatori Digital Transformation Academy del Politecnico di Milano, deve quindi entrare «in una nuova fase di valorizzazione strategica dell’innovazione, spostando il focus dalla pura sperimentazione alla generazione di impatto e adottando un modello che valuti anche gli effetti di medio lungo periodo».
Fonte: Il Sole 24 Ore