Più trasparenza e fondi: le richieste della moda all’Europa per sostenere la transizione green

Più trasparenza e fondi: le richieste della moda all’Europa per sostenere la transizione green

Un’industria della moda che percepisce un diffuso giudizio negativo da parte dell’opinione pubblica, a causa di una ancora scarsa, reale sostenibilità, ma che vuole essere autenticamente ed effettivamente più sostenibile e che per questo chiede con energia alle istituzioni strumenti e supporti finanziari adeguati, preoccupata che la transizione causi una perdita di competitività rispetto alle altre industrie del pianeta. È la fotografia del settore scattata dal report “The Status of European Fashion” pubblicato dalla European Fashion Alliance, che ha raccolto le indicazioni dei suoi membri, istituzioni e organizzazioni della moda da 23 Paesi del continente, fra cui la Camera nazionale della moda italiana, guidata dal presidente Carlo Capasa, la Fédération de la Haute Couture et de la Mode di Parigi, il British Fashion Council, che ha appena eletto la nuova ad, Laura Weir, ma anche Copenhagen Fashion Week e Moda Lisboa, per un totale di oltre 10mila fra piccole, medie e grandi imprese.

La percezione negativa è riscontrata dal 66% degli intervistati, e legata soprattutto a mancanze sul fronte dell’etica e della sostenibilità. La volontà di migliorare è unanime, ma a fare la differenza è la capacità, finanziaria e organizzativa, di rispondere efficacemente alle nuove normative in materia (in primis l’Espr, la regolamentazione sull’ecodesign in vigore dallo scorso luglio), che pesa soprattutto sulle aziende più piccole. Pur considerandoli strumenti indispensabili, soltanto il 52% degli intervistati dichiara di avere una buona conoscenza dell’Espr, percentuale che scende dal 44% per quanto riguarda il Passaporto digitale, documento di tracciabilità di cui tutti i prodotti dovranno essere dotati entro il 2027. Secondo il report su questo ritardo pesa sia la complessità dei provvedimenti, sia la mancanza di risorse interne che sappiano comprenderli e gestire di conseguenza l’adeguamento delle aziende.

Inoltre, è urgente fornire e applicare standard più uniformi ai processi di riciclo, ancora troppo diversi fra nazione e nazione; investire in innovazione per rendere meno costose le fibre riciclate, ancora inaccessibili per molte pmi; nel definire gli standard di durabilità di un prodotto prenderne in considerazione non solo la composizione fisica, ma anche elementi intangibili come l’attrattività del suo marchio.

Per saper governare il cambiamento necessario occorrono però le risorse adeguate, che le aziende affermano di non riuscire a trovare: i profili oggi più richiesti sono gli esperti di circolarità, digitale e marketing, ma anche figure tecniche, per esempio quelle in grado di fare riparazioni, necessarie quanto rarissime. In questo scenario sono a più rischio le imprese più piccole, che spesso hanno però anche un valore culturale, poiché custodi di saperi e tecniche in via d’estinzione: oltre a forme di supporto specifiche, la proposta è quella di applicare ai loro prodotti un’etichetta “Made in Europe” che li distingua e valorizzi.

Fonte: Il Sole 24 Ore