Quel travaso pazzesco di ricchezza dal lavoro al capitale

Per conoscere il quadro in cui muoversi nel 2025 e per approvare il budget, stavolta le aziende non devono aspettare l’ultimo giorno dell’anno. Il fatto che il governo abbia presentato un piano sulla struttura di bilancio già concordato con le Autorità europee riduce l’incertezza. Inoltre, i sacrifici sono stati ridotti a poco rispetto a quanto servirebbe all’Italia per risalire dall’ultimo posto nella graduatoria mondiale della finanza pubblica e della politica fiscale. Nei quattro anni passati c’era tanta incertezza: pandemia, inflazione da politica economica espansiva, Ucraina, energia, Medio-Oriente. Gli imprenditori hanno fatto appello ai loro animal spirits e se la sono cavata. I lavoratori dell’industria invece sono stati penalizzati un po’, anzi un po’ troppo. Nei prossimi mesi questo potrebbe essere un grosso problema, anche perché il contratto collettivo è scaduto per il 75% delle imprese aderenti a Confindustria e va rinnovato. Converrà ragionare anche di innovazioni organizzative e tecnologiche. Questo e altro ancora emerge da un rapporto sulla dinamica dei redditi dell’Osservatorio delle Imprese della Sapienza.

La distribuzione distorta della ricchezza

I bilanci aggregati delle società industriali italiane medie e grandi pubblicati nei giorni scorsi dall’Area Studi Mediobanca dimostrano che soprattutto per effetto dell’inflazione il fatturato netto 2023 è stato superiore del 34% al 2019, altrettanto il valore aggiunto, il fatturato esportato è tornato vicino al 40% del totale. Invece, la distribuzione della ricchezza prodotta dalle imprese è stata distorta. Negli ultimi quattro anni, tra il 2020 e il 2023, da un lato la quota di valore aggiunto che va ad ammortamenti, oneri finanziari, oneri fiscali è cambiata poco, dall’altro la quota che va a costo del lavoro ha perso 12 punti percentuali e quella che remunera il capitale di rischio dei soci (utile netto) è aumentata di 14 punti percentuali.

Il travaso di ricchezza dal lavoro al capitale è stato pazzesco. I soci hanno prelevato come dividendi l’80% degli utili netti e hanno lasciato il 20% come autofinanziamento di nuovi investimenti, quando invece a loro per primi dovrebbe convenire far crescere il capitale nella propria impresa. Oltretutto, gli avari investimenti delle imprese sono stati solo per il 40% materiali nelle fabbriche e per il 60% finanziari in partecipazioni.

Dallo studio della Sapienza emerge comunque che le società industriali godono in media di un’eccellente efficienza di gestione e un’ottima salute patrimoniale e finanziaria. Per esempio, negli ultimi quattro anni, la copertura delle scorte si è aggirata sempre intorno a 75-80 giorni, la dilazione a clienti intorno a 65 giorni, quella ottenuta dai fornitori intorno a 80 giorni. L’indice secco di liquidità è rimasto sempre pari a un ottimo 0,9 con un record di 0,93 nel 2020 dopo l’immissione nel sistema di una massa di moneta eccessiva, non impiegabile. Il rapporto tra debiti finanziari e capitale netto è rimasto sempre pari a un più che buono 0,7.

Disaffezione al rischio

La distribuzione degli utili e l’ottima salute finanziaria confermano che se l’industria non amplia l’indebitamento, non è per scarsità di credito, ma piuttosto per una disaffezione al rischio d’impresa, probabilmente motivata dall’incertezza e dalla perdita di competitività del paese. Di questo abbiamo scritto il 12 luglio scorso sul Sole e di questo si parla oggi in Confindustria.

Fonte: Il Sole 24 Ore