Quella differenza di salario ingiustificata tra uomini e donne

«È la settimana dell’uguaglianza, della diversità e dei diritti umani nella nostra azienda. Sosteniamo la diversità e il rispetto delle persone che lavorano nel gruppo per essere equi, aperti e premurosi verso colleghi, pazienti, amici e familiari» recita un tweet di un’azienda, che subito dopo viene rilanciato sul social con il commento: «In questa organizzazione, la retribuzione oraria media delle donne è inferiore del 17,4% rispetto a quella degli uomini. Il divario salariale è salito di 1,2 punti percentuali rispetto all’anno precedente».

Il giustiziere del pink washing è un bot (@PayGapApp), che automaticamente rilancia tutti tweet di enti, fondazioni, aziende, università, ospedali, squadre sportive britanniche che contengono parole chiave su diversità e inclusione e fornisce il dato sul divario salarial dell’organizzazione. Tutto in modo assolutamente automatico, grazie al fatto che in Uk è obbligatorio fornire i dati del gender pay gap e quindi attingere al data base diventa un gioco da algoritmo.

La legge in Italia

In Italia non sarebbe possibile. Se è vero, infatti, che in Italia le aziende pubbliche e private che occupano più di 50 dipendenti sono tenute a redigere, con cadenza biennale, un rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile secondo il Codice delle Pari Opportunità (modificato nel 2021), è pur vero che i dati pubblici sono aggregati. Non è quindi dato sapere azienda per azienda quale sia il divario retributivo di genere.

Un elemento non da poco, considerato che le percentuali totali restano un dato percepito lontano dai singoli individui e lasciano il tempo che trovano. In Uk, invece, quando un’azienda pubblica i dati, c’è un riscontro immediato dei dipendenti e delle dipendenti, che prendono coscienza delle differenze in busta paga. Cosa che permette poi anche alle rappresentanze sindacali di poter agire con maggiore efficacia e ai consigli di amministrazione di testare l’efficacia dei programmi di pari opportunità messi in atto.

La direttiva Ue

Qualche cambiamento arriverà entro il 2026 anche in Italia con il recepimento della nuova direttiva europea approvata lo scorso anno (Direttiva (UE) 2023/970 del 10 maggio 2023).In base alle nuove norme i datori di lavoro avranno l’obbligo di fornire alle persone in cerca di lavoro informazioni sulla retribuzione iniziale o sulla fascia retributiva dei posti vacanti pubblicati. In sede di colloquio sarà inoltre vietato chiedere ai candidati informazioni sulle retribuzioni percepite negli attuali o nei precedenti rapporti di lavoro. Una volta assunti, i lavoratori e le lavoratrici avranno il diritto di chiedere
ai propri datori di lavoro informazioni sui livelli retributivi medi, ripartiti
per sesso, delle categorie di lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore. Avranno inoltre accesso ai criteri utilizzati per determinare la progressione retributiva e di carriera. Un bel cambiamento, che parte dalla trasparenza.

Fonte: Il Sole 24 Ore