Quell’antico dialogo fra uomini e alberi
Non solo le piante sono uomini capovolti, come avevano pensato Empedocle e Democrito, Platone e Aristotele. Ma ritorna anche la metafora opposta perché i rami sono le braccia degli umani, le foglie i capelli. Il dialogo fra alberi, umani e naturalmente mondo divino si srotola nelle pagine di «Vissero i boschi un dì». La vita culturale degli alberi nella Roma antica di Mario Lentano. Il docente di Lingua e letteratura latina all’Università di Siena ricostruisce con una dotta messe di citazioni «una nicchia ecologica, con il suo “sistema locale di significati” e la sua specifica visione del mondo», deducendo che «per i Romani, e in larga misura già per i Greci prima di loro, la relazione tra universo vegetale e universo umano è descrivibile più precisamente nei termini della continuità: essi, in altre parole, non appaiono divisi da uno iato incolmabile, ma al contrario si collocano lungo una scala continua che li pone in relazione reciproca non meno di quanto li separi». Oltre al metodo filologico pieno di passione che innerva il saggio, non passa inosservata la lucidità della ricerca: non vi è alcuna visione oleografica o idilliaca perché quelle culture, pur infinite, «hanno portato avanti su larga scala lo sfruttamento intensivo dell’ambiente, la distruzione dei manti forestali legati alle esigenze dell’economia e della guerra e forieri di effetti devastanti e di un inquinamento diffuso di cui le stesse fonti antiche dimostrano a più riprese consapevolezza».
Le definizioni degli antichi
Lo studioso parte da «Vissero i fiori e l’erbe, / vissero i boschi un dì», versi della canzone Alla primavera, o delle favole antiche, scritta da Giacomo Leopardi nel 1822, in cui il poeta esprimeva il rimpianto malinconico e sognante – tipico dell’epoca preromantica – di un passato nel quale il mondo naturale appariva animato dalla presenza del divino e solidale con le vicende umane. In antico, il problema di definire la precisa natura della vita vegetale era stato affrontato dal pensiero greco sin dai suoi esordi, con Talete, Pitagora, Democrito, Anassagora ed Empedocle. Lentano inizia un lungo viaggio attraverso le etimologie (quella di Prisciano secondo il quale arbor deriva da robur, la quercia, è una suggestione che sottolinea però come la quercia sia l’albero per eccellenza) e il sesso degli alberi, pressoché invariabilmente femminili, come lo è il nome della terra. Per proseguire con le definizioni date dagli antichi: per Platone gli dèi «mescolando una natura affine alla natura umana con altre forme e con altre sensazioni, fecero nascere un altro tipo di vivente. E questi sono gli alberi e le piante che ora vengono coltivati e i semi»; Aristotele, invece, distingueva tra “essere vivente” (zôn, che include le piante) e “animale” in senso stretto (zôion).
L’identità botanica degli dèi
C’è poi il capitolo sull’identità botanica degli dèi: già Plinio sosteneva che i boschi sono stati templi degli dèi e che alcune specie arboree «sono oggetto di una continua protezione in quanto dedicate ciascuna a una sua divinità, come il farnetto a Giove, l’alloro ad Apollo, l’olivo a Minerva, il mirto a Venere, il pioppo a Ercole». Che apre una finestra su Virgilio. Quando nacque il poeta, secondo le usanze delle campagne attorno ad Andes, fu piantato un ramo di pioppo che in breve crebbe a dismisura, prefigurando l’eccellenza dell’autore dell’Eneide. Anche la grandezza di Alessandro fu annunciata da una pianta, un alloro, spuntato presso la casa del futuro principe. E, accanto a esso, era nato un pesco, il malus persica, tanto che agli interpreti fu facile prevedere le vittorie di Alessandro sui Persiani. Le piante indicavano la via agli antichi: il destino di Roma si palesa nello sviluppo e nel disseccamento di un fico o di un corniolo legati al fondatore e alla nascita della città, i destini di patrizi e plebei sono legati alle fortune di due mirti. Per non parlare del mito che si scioglie in natura: dal sangue di Aiace spunta il giacinto, da quello della sposa di Attis, Ia, le viole, dal latte sfuggito dal seno di Era i gigli, dalla bava di Cerbero una pianta velenosa come l’aconito.
Il senso dell’innesto
Ma forse la parte più interessante è quella sugli innesti, un altro rapporto ancora di rispecchiamento dialettico fra mondo umano e universo vegetale. Plinio presentava l’innesto come un adulterio fra piante e vi è uno stretto legame fra il verbo dell’innesto, inserere, e il semplice serere, impiegato con i suoi derivati in metafore sulla parentela, da semen (seme della pianta e dell’uomo) a satus (figlio di, seminato da) a sator (padre, seminatore). Lentano porta alla luce rimandi e radici, suggestioni e poesia, quasi a ribadire che le piante hanno un’anima dato che, stando a Plinio, «senza quest’ultima nulla può vivere».
Mario Lentano, «Vissero i boschi un dì». La vita culturale degli alberi nella Roma antica, Carocci, pagg. 248, € 24
Fonte: Il Sole 24 Ore