Resi in aumento, sulle aziende pesano i costi. Rimborsato il 20% delle vendite

Resi in aumento, sulle aziende pesano i costi. Rimborsato il 20% delle vendite

Acquistare, ricevere, provare, rispedire indietro. Oppure: ordinare due taglie, provarle entrambe, rimandare al mittente quella che non va bene. Quella del reso è una gestualità ormai nota ai consumatori di tutto il mondo: il tasso di reso dei prodotti fashion oscilla dal 20% degli acquisti in Italia al 60% della Germania, in proporzione al tasso di penetrazione delle vendite dell’ecommerce.

Costi in salita e perdita di ricavi

La pandemia ha spinto lo shopping online e ha aumentato la quantità dei prodotti resi. Con una serie di problemi a cascata: una riduzione delle vendite per le aziende (secondo If Returns, piattaforma Saas che si occupa di resi e cambi, circa il 20% degli acquisti online viene rimborsato); un aumento dei costi logistici (il costo operativo di un reso oscilla tra 8-12 euro) e un incremento dell’impatto ambientale. «Il costo più tangibile che l’azienda deve sostenere nella gestione di un reso è il trasporto – spiega Marcello S. Valerio, fondatore e ceo di If Returns -, poi ci sono i costi operativi del magazzino e la “svalutazione” del prodotto». Una volta che viene riconsegnato nei tempi prestabiliti dalla legge (il Codice del consumo stabilisce un limite di 14 giorni per il recesso, ma molte piattaforme e negozi arrivano a 30 e alcune anche a 100 giorni), il prodotto infatti deve essere esaminato, igienizzato, reimpacchettato e questo procedimento impiega spesso tempi lunghi, col rischio che una volta rimesso sul mercato il prodotto debba essere, per esempio, messo in saldo. Sempre secondo una stima di If Returns i resi venduti a prezzo pieno sarebbero meno del 55% del totale.

Quello che pesa di più sui conti delle aziende, tuttavia, secondo Valerio è «la mancata vendita, dovuta al fatto che molte persone quando rendono il prodotto chiedono direttamente il rimborso». Secondo una ricerca di If Returns, infatti, la perdita di entrate che deriva dai rimborsi si può stimare in 800 miliardi di euro nella Ue. «Le aziende devono cercare di trasformare il rimborso in un cambio – che deve soddisfare il cliente perché il 92% altrimenti non comprerà più sul sito – oppure in una gift card. Per fare questo ci vuole un processo digitalizzato che offra diverse opzioni al momento del reso», chiosa Valerio. Diverso è il caso della restituzione in negozio, sempre gratuita, visto che alimenta gli ingressi in boutique (e quindi potenziali nuovi acquisti).

La fine dei resi gratuiti?

Le aziende hanno deciso di affrontare la sfida dei resi in modo diverso. Innanzitutto parte dei costi di restituzione, per il ritiro al domicilio (che è la modalità più scelta dai clienti), sono stati scaricati sui consumatori che nel 74% dei casi, secondo If Returns, oggi pagano 3,5-4 euro a reso. Questo non solo per i prodotti di lusso: marchi del fast fashion come Zara e H&M hanno introdotto costi di spedizione dei resi che in Italia si aggirano intorno ai 5 euro per il marchio del gruppo Inditex e di 2,99 euro per il colosso svedese, l’ultimo a introdurre questa tariffa (ma non per i membri registrati della community). Ma l’addebito del costo non è l’unico modo con cui i brand puntano a ridurre i capi rimandati indietro: i resi sono dovuti nel 45% a problemi di taglia e l’investimento in strumenti che aiutino l’utente a comprare la misura giusta è un altro driver.

Focus su tecnologia e logistica

Lo raccontano le aziende stesse: «Nel 2022 abbiamo chiuso con un tasso di resi del 12% – spiega Vincenzo Troia, general manager di Giglio.com -, tra i più bassi del mercato». Le motivazioni sono molteplici: «La nostra logistica ha un doppio sistema di controllo qualità; la nostra scheda prodotto è dotata di strumenti di size prediction che aiutano il cliente a trovare la taglia corretta; infine applichiamo delle return fee al fine di disincentivare comportamenti seriali». Il manager conferma come i resi, dopo la pandemia, siano tornati a crescere, in primis per problemi di taglia: «Tipicamente l’abbigliamento è interessato da tassi di reso più alti, in particolare i pantaloni», conclude.

Fonte: Il Sole 24 Ore