Scandalosa scoperta del piacere femminile

Il primo dato sensibile è che in questa prima parte dell’81esima edizione della Mostra del cinema di Venezia non ci sono film che possano segnare la Storia della settima arte. Una pioggia di star, questo sì – da Monica Bellucci ad Angelina Jolie, da Nicole Kidman ad Antonio Banderas, con l’aggiunta di nuovi astri come Jenna Ortega –, interpreti di film di buona fattura, per lo più mainstream, con un eccesso di fantasmatico in termini sia di presenze infestanti, sia di ombre della mente.

Ma almeno c’è una novità sociologica: viene in rilievo una narrazione cinematografica sulle fantasie erotiche femminili, non come eccesso, ma come legittima ricerca del piacere sessuale, del diritto all’orgasmo femminile o della consapevolezza di volerlo trascurare per salvare un rapporto ormai non più passionale. La differenza rispetto al passato, in quest’ultimo caso, è la decisione attiva e non subita. È il caso di Babygirl di Halina Reijn con Nicole Kidman nei panni di Romy, amministratrice delegata di un’azienda di robotica in espansione, ammaliata da uno stagista che sembra avere strani poteri da domatore su animali e persone. Felice della sua famiglia e del marito (Antonio Banderas), Romy corre consapevolmente il rischio di una relazione disdicevole nella deontologia professionale. La parte più interessante in questo thriller psicologico con regia piatta, non è la versione “9 settimane e ½ con stagista” (tutto già visto), ma il rovesciamento di prospettiva. Non più l’uomo di potere che domina la donna più giovane, ma il contrario, seguendo le oscure trame del gioco, del consenso e della liberazione, senza per questo fare la fine di Madame Bovary.

Anche Cate Blanchett, giornalista inchiestista di successo nella serie televisiva Disclaimer di Alfonso Cuarón, vive le conseguenze di una relazione extraconiugale con un giovane. Ma qui i risvolti sono più complessi. Di nuovo, quella di Blanchett non è una posizione soccombente: ha un marito, anch’ella tutt’altro che indesiderabile, Sacha Baron Cohen, ma la vicenda di cui è protagonista, inizialmente misteriosa e inestricabile, finisce per avere una connotazione quasi moralistica sotto le braci (non nuove) della vulnerabilità digitale. Purtroppo la distensione del tempo “cuaroniana” qui non ha la stessa armonia dello splendido Roma. In Tre amiche di Emmanuel Moret prevale il senso di affermazione femminile. Queste donne nel fiore degli anni scelgono di stare in una coppia o di uscirci rimanendo fedeli a sé stesse, senza soggiacere a logiche sociali. Una commedia ben scritta, francesissima, che sarebbe stata bene Fuori concorso. Tra le protagoniste, la Camille Cottin di Call my agent che alla cerimonia di apertura ha fatto la laudatio di Sigourney Weaver, per il Leone d’oro alla carriera, in cui ha sottolineato come l’“Aliena” per eccellenza abbia percorso strade attoriali inusitate prima per una donna.

Certo, non si può parlare di indipendenza psicologica per la Maria Callas di Pablo Larraín. Lei sì è una figura vinta, soprattutto da sé stessa. Il regista cileno la osserva nei suoi ultimi giorni nella casa di Parigi nel 1977, mentre è sopraffatta dai fantasmi del passato, in cui Aristotele Onassis è il grande affondatore del suo talento. Angelina Jolie è un’ottima Callas, a dispetto dell’iniziale straniamento per la diversità fisica: il volto perfetto di Jolie non combacia certo con le splendide irregolarità della Divina. Ma lo si scorda subito, perché Jolie sa entrare nelle pose iconiche, canta con la sua voce, ne interpreta acribie, isterismi e follie molto vicine a quelle di cui, a sua detta, è succube lei. Una probabile candidata alla coppa Volpi per un biopic assai classico, anche se fatto bene, migliore di Spencer su Lady D. e di Jackie su Jackie Kennedy. Larraín funziona meglio quando corrode la sua America Latina, da Tony Manero a Post Mortem, allo psichedelico Ema. Finora, comunque, più che un festival è sembrata una seduta spiritica (tra l’altro, anche in Tre amiche compare il morto parlante!). Si è iniziato con la più giustificata e coerente fantasia gotica del re della commedia cadaverica, Tim Burton e il suo Beetlejuice Beetlejuice, con le vecchie glorie Michael Keaton – meno porcello, ma pur sempre spiritello –, Winona Ryder, ritrovata come star della tivù occultista, e Catherine O’Hara. Si aggiunge la nuova compagna di vita di Burton, Monica Bellucci, che qui è una bambolona graffettata e vendicativa. Burton segue le sue amorevoli corde dark con una vena di allegria in più rispetto a Edward mani di forbice o La sposa cadavere e realizza una storia divertente, caotica, ma anche per questo molto godibile con una forte solidarietà tra tre generazioni di donne.

La vena incorporea ha colpito anche Valerio Mastandrea in Nonostante, che ha aperto la sezione Orizzonti. Chi si aspettava che nella sua indole scanzonata e dolcemente pragmatica pensasse a un film su quel terreno di nessuno che è il coma? Come Burton lo affronta in maniera ironica e leggera, mettendo sé stesso, Lino Musella e Laura Morante a gingillarsi attorno all’ospedale, aspettando di svegliarsi e resistendo il più possibile alla morte. Fino a quando arriva una degente molto particolare (Dolores María Fonzi), che sconvolge abitudini e sentimenti. Alla seconda regia, Mastandrea, semina troppe tracce senza saperle dominare, “nonostante”, per l’appunto, qualche bella trovata sul passaggio nell’Aldilà.

Fonte: Il Sole 24 Ore