Scusi, lei è favorevole o contrario? Il divorzio a 50 anni dal referendum – Dossier
Scusi lei è favorevole o contrario? A dare il titolo al film di Alberto Sordi del ’66, è la domanda che ha diviso per anni un’Italia in bianco e nero, spaccandola sull’opportunità di dare la parola ai cittadini per mantenere in vigore la legge che porta il nome di un socialista e di un liberale, la Fortuna-Baslini n.898 con la quale, nel 1970, il divorzio è entrato nel nostro ordinamento. Un ingresso più che mai divisivo, con parte del mondo cattolico, e non solo, che difendeva l’indissolubilità del vincolo matrimoniale, e le forze laiche e progressiste, costituite da comunisti, socialisti, liberali e repubblicani, che guardavano al matrimonio al netto dell’altare, come istituto di diritto e non come sacramento. Nel segreto dell’urna, alla Camera la legge Fortuna ottiene a novembre 1969, 325 voti favorevoli e 283 contrari. In Senato approda un testo che prevede il tentativo obbligatorio di conciliazione e l’innalzamento da cinque a sette anni del periodo di separazione: i sì sono 164, 150 i no. Arriva dalla Camera, che aveva come presidente Sandro Pertini, il via libera definitivo ad un testo destinato ad aprire la strada alla consultazione popolare del ’74, voluta dalla democrazia cristiana, che aveva eletto al Quirinale il presidente Giovanni Leone con i voti della destra, dai monarchici e dal movimento sociale. Con la seduta più lunga del parlamento – dal 24 novembre al 1 dicembre 1970 – la legge Fortuna passa con 319 sì e 286 no. Moltre le personalità cattoliche che, “disobbedendo” alla Cei, tre mesi prima del voto, si espressero contro l’abrogazione, dai fratelli Paolo e Romano Prodi a Pierre Camiti, da Giancarlo Zizola a Leopoldo Elia da Tiziano Treu ad Arturo Parisi. Le firme raccolte furono oltre 1milione e 300mila a fronte delle 500mila richieste per dare la parola ai cittadini.
La parola agli italiani
Ma è proprio con il referendum abrogativo del 1974, il primo nella storia della Repubblica, che gli italiani dimostrarono di essere, in tema di diritti civili, più lungimiranti di quanto ritenesse la classe politica.
Il 12 maggio parteciparono al voto l’87,7% degli aventi diritto e il 59,3%, votò no, lasciando che la legge sul divorzio restasse in vigore. Ancora una volta lo stivale risultò spaccato a metà, con il nord e il centro che si espressero per mantenere la legge Fortuna e un Sud prevalentemente anti-divorzista. Una data storica soprattutto per le donne che videro riconosciuto, almeno sulla carta, il loro diritto ad uscire da un vincolo spesso fatto di sopraffazione. A monte della battaglia sul divorzio c’è l’Italia del boom economico, ci sono le proteste giovanili del ’68. Nelle scuole, nelle fabbriche e nelle piazze operai, studenti e movimenti femminili, sono i protagonisti di una voglia di cambiamento.
La parità dei coniugi nella coppia
Il no all’abrogazione fa da spartiacque tra la vecchia stagione e la nuova fatta di conquiste lente ma progressive sul diritto di famiglia. Dopo il divorzio si affermò la parità dei coniugi all’interno della coppia, Uno stesso peso per uomini e donne, che la Costituzione aveva riconosciuto già nel ’48, ma che faceva fatica ad affermarsi. Il legislatore ha seguito i padri costituenti solo nel ’75, quando con la riforma del diritto di famiglia è stata mandata in soffitta, almeno dal punto di vista giuridico, la potestà maritale. Un doppio colpo di spugna sul delitto d’onore e matrimonio riparatore è arrivato nel 1981. Con la legge 442 l’Italia cancellò due articoli del Codice Rocco, grazie ai quali la pena per violenza sessuale era estinta se seguita da un matrimonio “riparatore”. Mentre la condanna per l’uccisione di una donna in uno stato d’ira, quasi mai superava i tre anni. A perdere la vita figlie, mogli o sorelle, che si erano macchiate di relazioni carnali illecite.
Il calo dei matrimoni e l’aumento dei divorzi
Portato a casa il risultato del divorzio il legislatore ha poi lavorato per tagliare i tempi dello scioglimento del vincolo matrimoniale. Per la sentenza definitiva si è passati, con una prima riforma, da cinque a tre anni, rimandando la definizione delle condizioni accessorie.
Fonte: Il Sole 24 Ore