Se la solitudine è una conquista
Anche le vette si inchinano agli uomini, alla loro volontà, inscalfibile come roccia dura. Così successe alle 16.37 di lunedì 22 agosto 1955, quando Walter Bonatti conquistò la cima del Dru, nella parte settentrionale del massiccio del Monte Bianco. Sua maestà Walter e sua maestà Dru si erano confrontati a colpi di neve e vento terribile, chiodi e ascese, timori e discese agli inferi. Un corpo a corpo violento, lunghissimo e quasi disumano che Diego Alverà racconta, metro dopo metro, in Solo. Walter Bonatti dal K2 al Dru, ascesa fisica alla cima e le parole usate come gradini verso il cielo.
L’anno prima, l’alpinismo italiano aveva festeggiato la conquista del K2. Non senza polemiche, però, al centro delle quali c’era stato anche un giovane Walter Bonatti, 24enne. Secondo i piani di Ardito Desio, Bonatti e Pino Gallotti erano scesi al Campo VII, a quota 7345, a recuperare le riserve di ossigeno, per poi ricongiungersi con Erich Abram e con gli hunza Isakhan e Amir Mahdi. Dovevano arrivare ai 7627 metri del Campo VIII. Ma solo Mahdi e Walter, appesantiti dal carico e dalla fatica delle pendici ghiacciate, salgono verso il Campo IX, quello dal quale Lino Lacedelli e Achille Compagnoni daranno l’attacco finale alla vetta. Fanno quattro passi e si fermano, la carenza di ossigeno li soffoca. Passano le ore, lente e dolenti. Cercano la tenda di Lino e Achille senza trovarla, sta venendo buio e il vento è furioso. Amir è ubriaco di stanchezza, Walter più lucido scava nel ghiaccio un riparo a -50°. Non hanno cibo,né una tenda, solo un corpo preso a sberle dalla bufera e Walter canta la ninna nanna, conta e riconta per tener desto il suo compagno. Sul K2 arrivano Compagnoni e Lacedelli, Amir Mahdi si salva ma con gravi congelamenti alle mani e ai piedi. Ne nasce un caso diplomatico per come, secondo la stampa pakistana, era stato trattato il portatore e Bonatti sente il peso di accuse ingiuste.
Dopo le polemiche, la notte maledetta a 8100 metri e quelle ore, a strapiombo sulla roccia e la paura, aggrappato al ghiaccio e al vuoto, l’alpinista rientra in Italia, ha bisogno di ritrovarsi e di staccarsi dagli eccessi retorici con cui l’Italia del Dopoguerra aveva celebrato il K2. Bonatti è uomo di pietra e vento, di azione e silenzi, con una personale etica della montagna: «Scalare non è arrivare ma, piuttosto, salire, magari nel modo più difficile, per mettersi alla prova, per sperimentare e comprendere. Scalare è conoscersi, provare sentimenti, fare pace con le proprie emozioni e la propria fragilità. È piangere di gioia e di dolore, è sentirsi vivi e pieni, grati dell’intensità straordinaria di questo viaggio». Nel 1955, si trasferisce a Bardonecchia, si innamora, ma il K2 è incubo ricorrente. Inizia a pensare al Dru, «altero e pallido, accarezzato da una scia di stelle luminose e sconosciute», anche grazie al libro di Roger Frison-Roche, Primo in cordata, perché vuole dimostrare per primo a sé stesso di essere ancora vivo.
Ci sono alcuni amici intorno a Bonatti, gli impongono la ricetrasmittente per affrontare quel mostro di pietra e strapiombi. Dieci giorni per preparare ogni cosa e raccogliere quello che rimane della sua esistenza e portarla lassù: ha con sé cibo e viveri per cinque giorni, un fornelletto da campo con un flaconcino d’alcol, indumenti di ricambio e ciò che serve per il pronto soccorso, 79 chiodi, due martelli, 15 moschettoni, piccozza e macchina fotografica. In tutto 30 chili: «Salire non è certo una gioia che si misura in applausi e consensi, ma una conquista intima e personale, un passo dopo l’altro verso un diverso stato interiore, un modo per mettere alla prova ed espandere le proprie capacità. Arrampicare è questo, vivere sensazioni profonde, raggiungere una nuova consapevolezza». Alverà accompagna i passi di Bonatti come un cronista su un drone che suscita vertigine e partecipazione. Le pareti sono di vetro, la via non si trova. Bonatti fallisce una prima volta, una seconda. È più solo che mai, anche perché sceglie di salire alla vecchia maniera, solo con corde, chiodi e martelli, perché «per lui scalare è mettersi in difficoltà, è trovare soluzioni anche quando non esistono, proprio come adesso, qui appeso al nulla di questo oceano di roccia». Quei 3700 metri sembrano irraggiungibili, una cavalcata epica.
Bonatti cerca le fessure per infilare le dita, trascorre la quarta notte fra i ghiacci modellati come una scala. All’alba poi, novello Sisifo, deve scendere per risalire e sulle Placche Rosse sfida la gravità, con un dito maciullato dal martello e dal dolore. È appeso a pochi centimetri, come sul K2. Ma sa esser lucido. Riflette, ritrova forza e fiducia. Intravvede rocce sopra di sé e lancia una fune per domarle. Si aggrappa ed eccolo lassù. Non gli interessa piantare una bandiera ma, scortato dalla solitudine, ha ritrovato parte del suo cuore. Soprattutto ha finalmente fatto pace con la sua fragilità.
Fonte: Il Sole 24 Ore