Siracusa, Priolo, Melilli, Augusta: il quadrilatero della morte
Chissà quanti dei turisti che girano festosi per le stradine della splendida Ortigia, che ammirano i tesori che custodisce – dal Seppellimento di santa Lucia di Caravaggio alle rovine del tempio di Atena – sanno che si trovano su un angolo di quello che viene chiamato, a ragione, il quadrilatero della morte?
Chissà se sanno che in quel litorale che va da Augusta a Siracusa e che nel dopoguerra era considerato il più bel posto della Sicilia da Tomasi di Lampedusa che descriveva una «costa selvaggia completamente deserta» dove «non si vede neppure una casa» e «il mare è del colore dei pavoni», un mare che era incorniciato dai fiori di jacaranda – ricorda Roselina Salemi – e che ora invece è di «colore brunastro e ferruginoso» ed è incastonato tra «scogli insudiciati dal bitume», racconta il giornalista Fabio Lo Verso, è stata sversata una quantità di mercurio quasi doppia rispetto a quella che venne sversata nella baia di Minamata, in Giappone (cinquecento tonnellate dal 1959 al 1981 e poi si stima altre 250 tonnellate nei decenni successivi, contro le 400 versate a Minamata in tre decenni e mezzo). Là sono state riconosciute ufficialmente 2.265 vittime, 1.784 delle quali sono morte, 10mila persone hanno ricevuto risarcimenti e il nome del villaggio ha dato il nome alla malattia provocata dall’avvelenamento da mercurio.
Tra Siracusa, Augusta, Priolo e Melilli bambini nascono malformati – ai genitori nel 2006 la EniChem ha versato undici milioni di euro divisi fra centouno famiglie a titolo di “ristoro”, senza che nessuna responsabilità fosse riconosciuta – e le persone continuano a morire a causa dell’inquinamento – che non è solo quello da mercurio, ma anche da piombo, arsenico, esaclorobenzene, diossine etc. ma nulla è cambiato. La promessa bonifica si è arenata, gli impianti continuano imperterriti a emettere inquinanti, senza che nemmeno si sia avviata una riconversione verso impianti meno inquinanti, come è avvenuto a Gela, dove almeno le emissioni sono state abbattute del 70 per cento.
La storia di questa tragedia tutta italiana, fatta di disperante povertà, omertà, malaffare, corruzione e coraggio è raccontata nella toccante inchiesta del giornalista ginevrino di origine palermitana Fabio Lo Verso: Il mare color veleno (foto di Alberto Campi, prefazione di Enrico Bellavia, postfazione di Alessandro Bratti, Fazi, pagg. 240, € 18, e-book € 9,99) durata molti anni e che descrive tenacemente l’incredibile aggravarsi della tragedia via via che la consapevolezza dei danni aumentava («per la bonifica della rada di Augusta, la primissima relazione è “relativa a prelievi fatti nel 1976”, fa notare Salvatore Adorno, ovvero a ridosso della legge Merli. E già allora, si era di fronte a “elevate concentrazioni” di piombo, idrocarburi e mercurio, “un problema la cui soluzione non poteva essere ulteriormente procrastinata”. Sono trascorsi quasi cinquant’anni e la soluzione continua a essere procrastinata. All’epoca erano stati effettuati vari carotaggi nei sedimenti marini con “presenze di mercurio in quantità considerevoli, se non addirittura notevolissime”,
e analisi delle specie ittiche contaminate da «metalli pesanti”») e il naufragare di ogni iniziativa che avrebbe potuto portare a limitare la portata del disastro. Lo sprofondare della bella baia dove sorgeva l’area archeologica di Megara Iblea, antica colonia greca del 728 a.C. in un girone infernale di miasmi e veleni, condannata proprio dalla ricchezza di acque che la rese fiorente nell’antichità e che fece gola agli industriali italiani che a partire dai primi anni cinquanta la utilizzarono per raffreddare gli impianti e per liberarsi dagli inquinanti. Un luogo dove la popolazione da decenni convive con tre impianti di raffinazione, due stabilimenti chimici, tre centrali elettriche, un cementificio, due fabbriche di gas industriale e decine di aziende dell’indotto.
Con l’ironia necessaria a non farsi sopraffare dalla disperazione, ma anche con grande umanità e profondità piscologica, Lo Verso parte dal 1949, quando l’imprenditore lombardo Angelo Moratti insediò la raffinazione petrolifera in questa zona strategica al centro
delle rotte del Mediterraneo e descrive l’installarsi del polo petrolchimico, il più grande del Sud Europa, passato via via di mano e ora di proprietà perlopiù straniera, con la Raffineria Siciliana Oli Minerali (Rasiom) che fu venduta alla Esso, divenuta Exxon Mobil, e ora parte del gruppo algerino Sonatrach, e gli impianti Montedison passati alla Erg fino alla russa Lukoil (che ha una capacità di oltre trecentoventimila barili di greggio al
giorno sui circa cinquecentomila prodotti in loco, che a loro volta rappresentano il 30% del fabbisogno nazionale), dei cementifici, della produzione di amianto. Racconta con amarezza come il sogno del posto fisso, della busta paga, della Cinquecento e del panettone aziendale in una regione agricola e poverissima sia stato barattato con la salute e l’ambiente, dove pure gli studenti sembrano essersi convertiti al credo
imperante del «meglio morire di cancro che di fame». E come oltretutto il posto fisso sia poi stato soppiantato dalla proliferazione dei contratti precari. “Degli oltre ventiseimila impieghi degli anni Ottanta ne rimangono oggi circa settemilacinquecento, compreso l’indotto. Il sogno del pieno impiego, venduto da industriali e politici a braccetto, è definitivamente svanito. Nella provincia di Siracusa, da anni il tasso di disoccupazione non si scolla dalla media del 20%, e schizza oltre il 50% fra i giovani”.
Fonte: Il Sole 24 Ore