Siti archeologici, così la guerra mette a rischio arte e reperti

Siti archeologici, così la guerra mette a rischio arte e reperti

Conquistato, saccheggiato, attaccato, persino dilaniato da un’esplosione, eppure il Partenone svetta maestoso sulla sommità dell’Acropoli a ricordare, almeno a quella parte del mondo a cui apparteniamo, il Mediterraneo, che il nostro inizio è stato lì. E chissà se quello è stato pure l’inizio della lunghissima lista del patrimonio artistico distrutto dalle guerre. Ripercorrendo la storia più recente ci accorgiamo di quanto sia stata cruenta: da Palmira, l’antica città mutilata dall’Isis durante la guerra civile del 2011 in Siria, ai musei iracheni – primo fra tutti quello di Baghdad – saccheggiati a seguito dell’intervento militare statunitense del 2003; e ancora la moschea di Sidi Yahia a Timbuctù, distrutta dallo jihadista Ahmad Al Faqi Al Mahdi.

E non sempre i reperti riescono a sopravvivere. «Penso ai Budda di Bamiyan, in Afghanistan, riconducibili tra i 1500 e i 1800 anni orsono, distrutti dai talebani il 12 marzo 2001, in quanto testimonianze idolatre», ricorda lo studioso Pietro Graziani sul numero speciale “Effetti delle guerre sul patrimonio culturale dei territori” della rivista Territorio della Cultura, pubblicata dal Centro Universitario Europeo. «Nel 1993 venne distrutto il Ponte di Mostar, di oltre 500 anni, che univa due comunità, quella croata e quella bosniaca musulmana: altra testimonianza simbolica della guerra nella ex Jugoslavia. Non aveva una valenza strategico-militare, era un ponte pedonale, ma il simbolo che esso rappresentava era rilevante. A queste azioni nelle varie aree di guerra dobbiamo poi aggiungere i cosiddetti effetti collaterali: la distruzione di teatri, musei, monumenti, edifici storici, ancora oggi notizia quotidiana».

I beni Unesco in pericolo

I beni culturali sono espressione della presenza dell’uomo su un territorio, e non è un caso che i tentativi di conquista e controllo in caso di conflitti passino da qui. Attualmente sono 56 i siti che il Comitato del Patrimonio dell’Umanità, il World Heritage Committee dell’Unesco, ritiene in pericolo. Lo Stato che conta il più alto numero di siti minacciati è la Siria (con sei siti iscritti), fortemente mutilata durante la guerra civile e da poco liberatasi dal regime ma ancora in subbuglio. Dietro ci sono la Libia (con cinque) e lo Yemen (quattro), quest’ultimo da poco presente tra i Paesi che aderiscono alle convenzioni Unesco e Unidroit per la tutela del patrimonio culturale.

Ma in base a cosa i beni vengono inseriti nella Lista del Patrimonio dell’Umanità in pericolo? La cornice normativa è l’articolo 11 della Convenzione Unesco del 1972 che stabilisce che siano inseriti quei beni «per la cui conservazione sono previsti importanti interventi necessari e per le quali è stata richiesta assistenza». Assistenza senza la quale potrebbero scomparire a causa di un «deterioramento accelerato», di calamità e cataclismi, o ancora per «la minaccia di un conflitto armato».

Una minaccia, quest’ultima, crescente negli ultimi mesi, soprattutto in due aree: Medio Oriente e Ucraina. È sempre l’Unesco a calcolare, lo scorso febbraio che «dal 7 ottobre 2023 a oggi, sono 22 i luoghi di interesse culturale che sono stati distrutti nel conflitto tra Israele e Palestina. Si tratta di cinque siti religiosi, dieci edifici di interesse storico e/o artistico, due depositi di oggetti e beni di carattere culturale, un monumento, un museo e tre siti archeologici». Nel mirino anche il Libano, dove le operazioni militari delle Forze di difesa israeliane (Idf) contro Hezbollah stanno mettendo gravemente a rischio il patrimonio culturale. Pesanti infatti i bombardamenti su Baalbek e Tiro. Quanto all’Ucraina, «sono 343 i beni che, dal febbraio 2022, sono stati danneggiati o distrutti durante il conflitto, precisamente 127 edifici religiosi, 151 palazzi di interesse storico e/o artistico, 31 musei, 19 monumenti, 14 biblioteche e un archivio».

Fonte: Il Sole 24 Ore