Sostenibilità, gli eccessi della moda vanno in cenere nel deserto di Atacama

Dalla sommità del Cerro Dragon, spettacolare duna alta 200 metri che abbraccia la città di Iquique, nel nord del Cile, da un lato si vedono le navi cargo arrivare nel grande porto con i loro carichi di abiti usati provenienti da Europa, Asia e Stati Uniti, dall’altro gran parte della stessa merce bruciare fra le colline della vicina Alto Hospicio, colorando di grigio il deserto di Atacama.

Secondo l’Observatory of Economic Complexity, nel 2022 il Cile è stato il terzo importatore mondiale di abbigliamento di seconda mano dopo Pakistan e Emirati Arabi Uniti. Si stima che ogni anno almeno 60mila tonnellate di vestiti, scarpe e accessori usati o invenduti arrivino chiusi in balle nella zona franca di Iquique, dove duemila imprese specializzate sono pronte a selezionarle: la merce migliore è rivenduta come “vintage” in altri Paesi, la peggiore si deve smaltire. In questa ultima categoria, però, rientra ben il 70% del totale. E dal momento che non esiste legislazione nazionale adeguata per lo smaltimento e farlo costa troppo, le enormi quantità di merce destinata alla discarica sono affidate a persone che le trasportano fra le sabbie di Atacama e lì le bruciano, su un’area di circa 300 ettari le cui ceneri si vedono anche dalle foto scattate dai satelliti.

In quella cenere, che veste una delle zone più povere del Paese, nonché una delle più fragili dal punto di vista ambientale, finisce l’iperproduzione dell’industria globale della moda. Non è un caso che il boom dell’importazione di moda usata in Cile sia avvenuto negli stessi anni dell’esplosione del fast fashion. Gli incendi nella zona di Alto Hospicio non sono controllati: nel giugno 2022 uno bruciò per tre giorni, alimentato da circa 100mila tonnellate di rifiuti, asfissiando i residenti che spesso vivono in condizioni miserevoli. I rifiuti sono composti in maggioranza da tessuti sintetici e rilasciano microplastiche che si accumulano pericolosamente nell’ambiente meno piovoso del pianeta. Una tragedia umana e ambientale alla quale un gruppo di attivisti della zona si sta ribellando, denunciando la situazione soprattutto tramite i social.

«Nel deserto troviamo soprattutto vestiti, jeans, giacche, ma anche scarpe e accessori – spiega da Alto Hospicio Karla Avilés, cofondatrice della ong Desierto Vestido, che da due anni cerca di sensibilizzare istituzioni e consumatori sui rischi e le conseguenze della iperproduzione dell’industria della moda-. Si tratta soprattutto di prodotti di scarsa qualità. I marchi più ricorrenti sono H&M, Old Navy, Zara, Guess, Adidas, Gap, l’ultima volta abbiamo visto i primi scarti con etichette di Shein. Ma a volte ci imbattiamo anche in marchi di lusso: abbiamo trovato cose di Gucci, Chanel, Dior, Calvin Klein, solo per citarne alcuni. Sono generalmente prodotti rotti, tagliati, pratica molto comune per impedirne il riuso». Stanno aumentando i prodotti nuovi, ancora nei loro involucri.

Nel deserto che continua a bruciare, insieme a Fashion Revolution Brazil e ad Artplan, agenzia di comunicazione brasiliana, Desierto Vestido ha organizzato l’“Atacama Fashion Week”, una provocazione più che un vero evento, facendo sfilare look creati con abiti e accessori trovati nelle discariche: «Siamo molto felici anche delle polemiche che ha suscitato – continua Avilés -, perché per noi è molto importante che il problema sia un argomento di discussione ricorrente nell’opinione pubblica. L’industria deve capire che non siamo il suo immondezzaio».

Fonte: Il Sole 24 Ore