Stipendi bassi e carriera lenta rendono l’Italia poco attrattiva
Uno studio recentemente pubblicato con ricercatori tedeschi, dall’evocativo titolo “How to protect the taste for science?” solleva un allarme: la professione accademica in Italia è veramente poco attrattiva. Un’analisi comparativa condotta tenendo conto delle dinamiche nazionali e internazionali evidenzia, infatti, diverse criticità che rendono questa carriera poco seducente per i giovani italiani. Un fatto che, se non corretto, mina l’attrattività del nostro Paese. La tabella accanto riporta i principali risultati dello studio ed evidenzia come il fascino della professione accademica in Italia soffra sia quando viene confrontata con le altre carriere disponibili lungo la penisola, sia nel confronto internazionale. La scarsa attrattività sembra inoltre più acuta nella prima fase della carriera (young people gap).
Innanzitutto, gli stipendi dei ricercatori italiani risultano penalizzati, sia in termini assoluti sia in relazione alle remunerazioni in altre professioni. Inoltre, a penalizzare l’attrattività del sistema partecipano carriere lente e burocratiche, uno dei fattori che maggiormente scoraggia i giovani nel cercare un futuro professionale nei nostri atenei. L’articolo segnala inoltre la presenza di condizioni di lavoro in deterioramento qualitativo, con un peso crescente delle attività amministrative, spesso percepite soprattutto in fasi avanzate della carriera. Per tutti questi motivi gli italiani spesso preferiscono carriere alternative a quella accademica, che viene meglio considerata sul mercato internazionale.
La situazione italiana, infatti, appare ancora più critica se confrontata con quella di altri Paesi vicini a noi. Germania e Regno Unito, in particolare, offrono stipendi significativamente più elevati e condizioni di lavoro più competitive. Un ulteriore elemento di debolezza del sistema italiano è la mancanza di componenti variabili nella remunerazione dei ricercatori. Negli altri sistemi considerati dallo studio, compresa la Francia, i salari degli accademici includono premi di produttività, indennità legate alle condizioni di mercato, alle condizioni familiari, o alla localizzazione geografica. In assenza di questi meccanismi, rischiano di essere le persone di maggiore qualità ad abbandonare per prime il sistema. E il problema viene percepito maggiormente nelle discipline che offrono migliori condizioni alternative di remunerazione, a partire dalle cosiddette Stem.
Per affrontare questa situazione è possibile intervenire su diversi fronti. In primo luogo, pare fondamentale ridurre l’età d’ingresso nel mondo accademico, consentendo ai giovani ricercatori di avviare la loro carriera e raggiungere posizioni di responsabilità in tempi più rapidi (o di uscire dal sistema). Da questo punto di vista, è giustificata l’attenzione che il ministero sta dedicando in questo momento alla revisione delle condizioni per l’accesso al ruolo. Andrebbero altresì riviste certe durate, si pensi ad esempio all’area medica. In secondo luogo, è raccomandabile una riflessione sul sistema di remunerazione, che consideri l’introduzione di elementi di differenziazione per premiare l’impegno, la produttività e le competenze specifiche, nonché di tener conto delle condizioni di contesto.
Se è vero che il problema della “fuga dei cervelli” è ben percepito nel Paese, e che diverse “politiche di rientro” sono già state messe in atto, l’articolo sembra suggerire, tuttavia, come sia necessario lavorare prima sulle condizioni interne al sistema, piuttosto che limitarsi a incentivi fiscali talvolta distorcenti per quantità e qualità. Del resto è già stato documentato come le politiche di attrattività basate solo su incentivi fiscali abbiano addirittura determinato un deterioramento del saldo netto per il Paese, con un incremento maggiore dei ricercatori in uscita rispetto a quelli in entrata e con premi ai ceti più abbienti. Appare dunque urgente guardare alle condizioni di chi decide di lavorare nel nostro Paese, perché sulle capacità dei nostri ricercatori, fortunatamente ancora elevata come risulta dalle valutazioni internazionali, si basa la possibilità per l’Italia di mantenersi competitiva nelle rilevanti sfide internazionali che l’attendono.
Fonte: Il Sole 24 Ore