Suicidio in carcere, risarcimento per l’ingresso senza psicologo

Il ministero della Giustizia deve risarcire la famiglia del detenuto che si suicida la mattina dopo il suo ingresso in carcere, avvenuto senza incontrare lo psicologo o l’educatore. In più il ragazzo, sottoposto alla custodia cautelare, era stato messo in una cella da solo, benché sorvegliato, e non, come ordinato dal Pm, con altri detenuti. Omissioni che, secondo i giudici, hanno il valore di “nesso causale” con la tragica fine dell’indagato. La Corte di cassazione, con la sentenza 29319, respinge il ricorso di via Arenula, contro la decisione della Corte d’Appello di riconoscere, dopo un procedimento durato 15 anni, un risarcimento alla madre e ai fratelli dell’uomo. Inutile la richiesta del ministero di dare un peso alle testimonianze del personale del carcere. La Suprema corte ricorda, infatti, che “non può attribuirsi valore probatorio, in controversia relativa al contestato adempimento degli obblighi gravanti sull’amministrazione penitenziaria, alle dichiarazioni rese dal personale della struttura penitenziaria che aveva tutto l’interesse ad escludere ogni addebito di responsabilità per quanto avvenuto”. Né passa la giustificazione dell’ora di ingresso nella struttura, le 21 e 30, per l’assenza dello psicologo e dell’educatore. Il ministero nega le responsabilità dell’amministrazione penitenziaria, al pari di quanto aveva fatto il Tribunale di primo grado, considerando il suicidio un “fattore eccezionale ed imprevedibile tenendo conto delle peculiarità del caso concreto”. Il ragazzo all’arrivo era stato, infatti, visitato dal medico di guardia, e considerato un soggetto con rischio suicidio basso. Durante la notte l’agente di turno era passato più volte davanti alla cella e lo aveva sempre visto tranquillo. Controlli costanti e ripetuti, dovuti al regime di “grande sorveglianza”, che erano proseguiti fino alle 6,50 del mattino. Verso le 7 era stato trovato il suo cadavere. Lo stesso Pm aveva poi considerato non particolarmente significativo il generico proposito suicida manifestato, solo in quell’occasione, vista anche la precedente esperienza del carcere dove l’uomo aveva trascorso in passato 5 anni.

Il colloquio all’ingresso

Per la Cassazione non sono argomenti convincenti. La Suprema corte, già in sede di rinvio alla Corte d’Appello – che aveva in prima battuta escluso le inadempienze dell’amministrazione per poi affermarle – aveva considerato “incontestabile, sul piano causale, che, ove il (….) fosse stato sottoposto a regime di detenzione comune, come peraltro espressamente richiesto dal pubblico ministero, i suoi intenti suicidari sarebbero stati impediti o comunque resi di assai più ardua realizzazione dalla presenza di altri detenuti”. Nè l’ora tarda poteva essere una giustificazione per togliere rilievo ad una circostanza decisiva: l’assenza all’arrivo dello psicologo e dell’educatore per sottoporre la persona in custodia cautelare ad una “osservazione funzionale a verificarne la capacità di affrontare adeguatamente lo stato di restrizione”. Per la Cassazione il mancato adempimento violava l’articolo 23 dell’Ordinamento penitenziario (Dpr 230/2000), secondo il quale “un esperto dell’osservazione e trattamento effettua un colloquio con il detenuto o internato all’atto del suo ingresso in istituto per verificare se, ed eventualmente con quali cautele, possa affrontare adeguatamente lo stato di detenzione”. Di parere diverso il ministero che riteneva di aveva a disposizione 24 ore per osservare un obbligo, inesigibile vista l’ora di arrivo nella sezione “nuovi giunti”.

Fonte: Il Sole 24 Ore