Tessile, la formula di Slow Fiber per una industria pulita e giusta
«Far capire ai clienti perché un nostro capo aveva un certo prezzo, ben diverso da quello del fast fashion, era diventato molto faticoso», racconta Dario Casalini, alla guida dell’azienda di famiglia che a Torino dal 1936 produce intimo di alta qualità con il marchio Oscalito. «Ho capito che era necessario riallacciare una relazione fra persone e prodotti, raccontando che il valore, non il prezzo di un capo, era dato dal suo legame e rispetto per il territorio, da una reale e completa sostenibilità. E dando voce alle aziende che la praticavano». Così, ammiratore della filosofia e del modello Slow Food – il movimento fondato da Carlo Petrini per valorizzare la produzione e il consumo culturale e sostenibile del cibo – Casalini l’ha seguita, riproducendola nel tessile, e lo scorso maggio ha lanciato Slow Fiber, una rete di aziende tessili unite dall’obiettivo di produrre in modo «buono, pulito, sano, durevole», come si legge nel manifesto. Le adesioni sono già arrivate a 23, fra le quali Vitale Barberis Canonico, Botto Giuseppe e Figli, Albini, aziende che generano circa un miliardo complessivo di fatturato. Pettinature, torciture, filature, tessiture, tutte unite da un obiettivo: dimostrare che è possibile creare prodotti non solo belli, ma sani per chi li usa, puliti perché il loro impatto ambientale è ridotto, giusti perché rispettano i diritti e la dignità dei lavoratori coinvolti nella loro realizzazione e valorizzano competenze e saperi tradizionali e sono in grado di durare nel tempo.
Non si tratta, però, dell’ennesima certificazione: «Ce ne sono già troppe – dice Casalini -. Intorno alle nostre parole-manifesto abbiamo definito dei precisi kpi (Key Performance Indicators), valori che misurano l’andamento dei processi aziendali rispetto agli obiettivi prefissati. Solo le aziende che li rispettino possono fare parte della rete Slow Fiber». Dunque, per esempio, l’azienda non deve aver dato in subappalto più del 30% della produzione negli ultimi tre anni; deve essere attiva da almeno 10 anni e avere sede legale e operativa nel territorio di riferimento; investire in sostenibilità almeno l’1% del fatturato annuo, usare almeno il 50% di materie prime certificate e avere almeno il 70% di fornitori di prossimità, un certo tasso di turnover, monitorare la parità di genere.
«Il riciclo, la circolarità, sono fondamentali, ma non devono essere gli unici obiettivi. Con la “scusa” del riciclo si avalla il modello di iperproduzione. La soluzione è far bene dall’inizio, cambiando sia il modello di produzione sia quello di consumo. E non possiamo peraltro aspettare che il cambiamento arrivi grazie alla legislazione». Mentre Slow Fiber sogna di diventare internazionale («vogliamo tutelare il pluralismo delle culture tessili, coinvolgendo produttori di tutto il mondo che esprimano elementi peculiari», nota l’imprenditore), punta anche al racconto dei suoi valori, soprattutto alle giovani generazioni: «Stiamo pensando a un primo prodotto, forse una T-shirt, a marchio Slow Fiber, dunque espressione dei nostri valori, e vorremmo dedicare una campagna alle giovani generazioni, molto sensibili ai temi che interessano anche noi, ma anche molto confuse da una ipercomunicazione, spesso parziale, se non fuorviante». Partendo dai fondamentali: la differenza fra prezzo e valore.
Fonte: Il Sole 24 Ore