The Clock, inesorabile verità del tempo
Tic toc, tic toc. Tic. E poi toc. Quando il tempo entra in scena niente può fermarlo: e, forse, dargli l’attenzione che merita è la più saggia delle azioni umane che possiamo compiere. Così, anche se ho già visto, lodato, scritto più volte sull’immensa opera «The Clock» (2010) di Christian Marclay (1955), Leone d’Oro a Venezia, adesso che una delle sei copie esistenti torna visibile (al Moma, da qualche giorno fino a febbraio 2025), non posso che ripetere: va, per chi può, di nuovo, ancora e ancora, centellinata e gustata. Un secolo di cinema in frammenti, ciascun minuto delle 24 ore gode della sua brava inquadratura, effimera eppure decisiva come tutte le altre. È un’opera d’arte, sì; ed è un orologio. Sincronizzato col tempo “esterno”, il tempo di «The Clock» scorre inesorabile per sé stesso e per noi che osserviamo, grande metafora della vita, della verità. Alle 11:53 un orologio tascabile segna il momento di partenza del «Titanic» (destino in agguato), alle 6:30 del mattino Meryl Streep spegne la sveglia e inizia la giornata (il quotidiano ripetersi), alle 12:20 James Bond sincronizza gli orologi (fa attenzione al tempo), e così via per 24 ore ininterrotte (il 21 dicembre il museo apre tutta notte, così si vedrà l’opera completa). Dentro questo flusso, che fa scorrere davvero il tempo e ce ne rende visibile l’illusorio movimento, la mente, anche se non vuole, individua filoni, narrazioni. Il montaggio dell’opera (richiese due anni al suo team per scovare tutte le clip di tutti i minuti) genera dipendenza. Le trame slegate, unite da orologi sullo schermo, ricordano qualcosa: le nostre esistenze schiave di un dio (s)fuggente che va in un’unica direzione. Verso la fine ma avverte che la fine è illusione: il tempo di Marclay è quello di sant’Agostino, ed è il nostro, noi condannati all’eterno presente, cercatori di futuro, carichi, si spera, di memoria. Assetati di storie; no, di tempo. O forse è lo stesso.
Fonte: Il Sole 24 Ore