Tornare in ufficio o continuare in smart working, questo è il problema (dei manager)
È il dubbio dei dubbi, quello che attraversa le menti di molti manager: tornare in ufficio o continuare in smart working? Se analizziamo quello che è accaduto negli ultimi 5 anni, dal pre Covid-19 ad oggi, possiamo individuare tre fasi piuttosto definite: la prima è quella che potremmo definire in presenza al 100%, con pochissimi e isolati casi di remote working; la seconda – che inizia a febbraio/marzo 2020 – è quella del full remote working, una scelta obbligata a causa delle restrizioni. E chi dimentica le riunioni in video, le pause caffè insieme ma a distanza, a casa propria, i più fortunati al mare o in giardino e i meno fortunati tutti ammassati in pochi metri quadrati in centro città?
Fino a quel momento nessuno avrebbe mai osato proporre una soluzione completamente a distanza o di richiederla come alternativa alla presenza fisica. Ricordo lo sguardo terrorizzato di alcuni conoscenti quando, nel 2016, alla creazione della mia start up, proponevo colloqui via web. La maggior parte delle volte mi sentivo dire che i colloqui erano e dovevano essere solo in presenza.
Nel 2021 si apre, invece, la fase tre che potrebbe essere una sintesi delle prime due: qualche giorno in ufficio e qualche giorno a casa. Una fase che ha permesso alle aziende di ridurre i metri quadrati dei propri uffici e di abbattere le spese energetiche o di gestione degli uffici. Tutto questo discorso, ovviamente, vale per i cosiddetti colletti bianchi, perché tutto quello che è connesso con la produzione non ha potuto beneficiare di nessuna delle ultime due fasi.
Ma cosa sta accadendo oggi e perché? In molti settori, a cominciare da quelli dell’IT, si è iniziato a vedere un progressivo rientro in ufficio in persona, prima quattro giorni su cinque per poi arrivare ai cinque su cinque. Oggettivamente è un settore che post Covid-19 ha subito un grosso turnaround dopo aver visto i propri profitti crescere a dismisura – durante e subito dopo la pandemia – con l’inserimento di tantissime risorse poi risultate eccessive una volta tornati alla normalizzazione dei consumi. Molti di questi professionisti erano stati assunti con soluzioni fully remote e riportarli in sede è stata, probabilmente, la soluzione più immediata per spingere alcuni a decidere di interrompere le collaborazioni. Bisogna pensare che in paesi come gli Stati Uniti trasferirsi da una costa all’altra vuol dire spesso coprire distanze da 5 ore di volo e almeno due fusi orari, magari con tassazioni completamente diverse. E non tutti sono disposti a rinunciare alla possibilità di usufruire di tutti i vantaggi che il remote ha da proporre.
Calo della produttività in remoto
Dopo aver visto una certa efficacia lavorativa da parte di tutti durante il periodo di lavoro a distanza il rientro a tempo parziale in ufficio ha visto una calo della produttività soprattutto nei giorni in remoto. Un po’ come se lo stare a casa fosse stata considerata una possibilità per lavorare un po’ più rilassati e meno focalizzati su quanto necessario. A supporto di ciò c’è anche da considerare che in alcune aziende ad esempio si sono verificati casi di sostituzione di persona soprattutto per posizioni dove non è richiesto il collegamento costante. Un po’ come il subappalto illecito, se volessimo semplificare e banalizzare. Chi lavora in remoto può essere scarsamente controllabile e questo ha permesso ad alcuni di svolgere più attività contemporaneamente, magari con l’aiuto di altri.
Fonte: Il Sole 24 Ore