Tortura per più violenze sui detenuti anche se in una sola occasione

Tortura per più violenze sui detenuti anche se in una sola occasione

Scatta il reato di tortura per più condotte violente commesse nei confronti dei detenuti, in condizioni di sudditanza, ai quali vengono provocate acute sofferenze fisiche e un verificabile danno psichico. La Cassazione, con una serie di sentenze (42649 e altre), respinge i ricorsi – contro la sospensione cautelare dal servizio per un anno – proposti dal coordinatore del corpo di polizia penitenziaria di Foggia e di alcuni agenti, indagati per il reato di tortura nei confronti di due detenuti. La Suprema corte respinge la tesi della difesa, secondo la quale, la contestazione del reato, previsto dall’articolo 613bis del Codice penale, era infondata perché, nel caso esaminato, mancava l’elemento della reiterazione richiesto, ad avviso dei ricorrenti, anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Di diverso avviso i giudici di legittimità che, con un verdetto in linea con la Cedu, chiariscono che l’accusa può essere mossa anche nell’ipotesi di plurime condotte di violenza e minaccia, pur se messe in atto “in un unico contesto spazio temporale”. Nel caso esaminato, aveva ricostruito il Gip, un detenuto era stato indotto da tre o quattro agenti a rientrare in cella, con la scusa di una perquisizione, e lì a turno gli indagati lo avevano picchiato, dopo avergli rotto gli occhiali con uno schiaffo. Alla base dell’aggressione il comportamento di uno dei detenuti, con problemi psicologici, che aveva scioccato un’ispettrice tagliandosi davanti a lei. Botte anche al compagno di cella che lo aveva difeso. Non passa neppure la contestazione sull’impossibilità di usare i filmati girati negli spazi comuni del carcere, perchè non sono luoghi di privata dimora.

Reato anche non impedire le violenze

Quanto al coordinatore, oltre ad aver partecipato ad una aggressione, per aver trattenuto nel centralino un detenuto, è accusato dello stesso reato degli agenti ( sentenza 42652) per non essersi attivato, come era suo dovere, per impedire le violenze. Per i giudici “il ricorrente si era reso responsabile di condotte di rilevante gravità, avvalendosi della complicità degli altri agenti di custodia, dimostrando un particolare sprezzo dei doveri del suo ufficio ed una propensione al passaggio alle vie di fatto, anche al solo fine di imporre la propria supremazia”. Ad avviso degli ermellini, infine, le sofferenze fisiche sono provate dalle lesioni e dal dolore provato dai detenuti a distanza di giorni. Quanto a quelle psicologiche sono dimostrate dal timore che emerge anche durante gli interrogatori e dallo stato di prostrazione in cui si trovano.

Fonte: Il Sole 24 Ore