Troppi figli in vetrina sui social, anche i brand si schierano
Una classe ribaltata nella quale ci sono le mamme e i papà seduti sui banchi, in ascolto del professore. Può sembrare un paradosso, ma mai come oggi le generazioni più mature devono imparare a navigare al meglio i social media e le piattaforme in rete, postando con moderazione e rinunciando alla condivisione di foto o video dei propri figli. Ruota attorno a questa lezione di buon senso la campagna “La sua privacy vale molto più di un like” appena lanciata dal Garante per la protezione dei dati personali contro il cosiddetto sharenting, cioè il rilancio social costante e ossessivo da parte dei genitori di documenti multimediali dei propri figli. Lo spot, in chiave ironica, è composto da immagini in cui per l’appunto un insegnante si rivolge ad una classe composta da adulti genitori evidenziando i pericoli che derivano dal postare foto e video dei propri figli. Obiettivo: rendere consapevoli i più grandi dei rischi cui sottopongono i minori mostrandoli in rete. Un’esposizione pericolosa perché alla mercé di persone che operano per scopi impropri, attività illecite o addirittura negli scenari peggiori siti pedopornografici. «Lo sharenting è un fenomeno che continua ad esistere e le stesse radici storiche del fenomeno, che partono dalle più tradizionali foto di famiglia in analogico che hanno sempre visto i bambini come principali soggetti protagonisti, ci fanno capire come la componente tanto emotiva quanto di orgoglio genitoriale fanno sì che una pratica del genere persista nel tempo. Si parte dagli albori della rete, quando prima ancora dei social in nord-America si svilupparono i primi siti web familiari, in cui i genitori utilizzavano la rete come prolungamento dell’album di famiglia. Ma sta emergendo una controcultura che predilige la disconnessione e si applica a tutte le sfere della vita che siamo soliti affidare alla rete», afferma Davide Cino, ricercatore del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa” dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca e autore del libro “Sharenting” per FrancoAngeli.
Brand in campo
Intanto diverse organizzazioni hanno scelto di schierarsi contro quelle mamme e quei papà che postano foto e video dei figli anche minorenni sulle pagine social o che condividono questi materiali sulle chat di instant messaging. Una presa di posizione verso una nuova ecologia della rete che favorisce il detox e la maggiore consapevolezza, anche a scapito di infastidire la propria base clienti. Perché il tema è assai delicato. La compagnia di telefonia mobile cinese in India – Paese che guida le classifiche mondiali poer diffusione capillare e pervasiva dei consumi via smartphone – ha lanciato poche settimane fa “Connettersi per disconnettersi” per favorire il dialogo in famiglia. In Germania Deutsche Telekom è in programmazione con lo spot “Senza consenso” per denunciare la moltiplicazione di foto di minori online, un’altra iniziativa di sensibilizzazione per i genitori. Nell’Assam, regione indiana tra il Tibet e la Birmania, la polizia locale ha lanciato la campagna di sensibilizzazione #DontBeASharent, focalizzata sul furto di identità dei minori. D’altronde i numeri parlano chiaro: quando un bambino compie cinque anni è già presente sui social con una media di 1500 foto di sé caricate senza il suo consenso da coloro di cui si fida di più, ossia i suoi genitori. Gli esperti hanno previsto che entro il 2030 due casi su tre di furto di identità saranno dovuti alla condivisione. Intanto la società americana di ricerca Security.org ha pubblicato una ricerca sul fenomeno dilagante della pubblicazione di foto dei minori: il 75% dei genitori ha condiviso almeno una foto, un video o una stories dei propri figli sui social, mentre l’80% ha utilizzato il suo nome reale.
A caccia di consapevolezza
Ma attenzione: tutto ciò che fa leva sul proibizionismo è irrealistico e poco efficace. Quindi occorre operare su un linguaggio empatico. «Colpevolizzare i genitori e portare avanti una diatriba non è utile, non educa alla riflessività. Ci sono poi approcci più razionali: penso alla proposta di legge sul diritto all’immagine dei minorenni che chiama in causa il tema della co-genitorialità, ma anche alla regolamentazione degli aspetti commerciali della pratica. È sensato ragionare in termini di governance», precisa Cino. Anche perché i rischi sono molteplici: dal rapimento digitale al bullismo, dai conflitti tra genitori e figli ad utilizzi illeciti del materiale condiviso. «Rischi e danni sono due cose distinte: non tutti i rischi potenziali per fortuna si trasformano in situazioni concrete e dannose. Bisogna parlare apertamente delle aspettative di privacy rispetto alla presenza online della prole con nonni, parenti, insegnanti, che sono fra gli attori che contribuiscono alla presenza digitale dei minorenni, talvolta senza il loro consenso né quello dei genitori. Bisogna puntare su qualsiasi proposta educativa o campagna informativa che lavori per un cambio di paradigma e ragionare su cosa possa promuovere riflessività in famiglia e rispetto non solo della privacy, ma anche dell’agentività rappresentativa dei figli, che è la loro capacità di decidere se, in che misura e in che modo essere rappresentati online», conclude Cino.
Fonte: Il Sole 24 Ore