Uccise la fidanzata, processo bis per valutare l’attenuante dello stress da lockdown

Lo stress da pandemia può avere avuto un peso nell’uccisione di Lorena Quaranta per mano del fidanzato. La Corte di Cassazione (sentenza 27115) conferma la responsabilità nell’omicidio e il dovere di risarcire le parti civili, compresa l’Associazione “Una di Noi Onlus”, ma annulla la sentenza – con la quale la Corte d’Assise di Appello di Messina ha condannato Antonio De Pace, classe ’92, all’ergastolo – solo per la parte in cui al ragazzo vengono negate le circostanze attenuanti generiche. La Suprema Corte chiede un nuovo giudizio, invitando questa volta i giudici a dare un peso al disagio provato dall’imputato per l’inizio della pandemia. Va valutato l’effetto dell’emergenza Covid “con tutto ciò che essa ha determinato sulla vita di ciascuno e, quindi anche dei protagonisti della vicenda, e ancor più, la contingente difficoltà di porvi rimedio costituiscono fattori incidenti sulla misura della responsabilità penale”.

Il tentativo dell’imputato di raggiungere la sua famiglia

Con queste motivazioni, a circa un anno dal verdetto in Appello, i giudici di legittimità chiedono un nuovo giudizio per l’omicidio, avvenuto a Furci Siculo nel 2020. La notte del 31 marzo la giovane studentessa di medicina, era stata strangolata dal fidanzato al termine di una lite. Il ragazzo aveva poi tentato il suicidio, prima procurandosi dei tagli, poi mettendo il phon nella vasca da bagno, facendo però scattare il salvavita. Un epilogo tragico dopo giorni di ansia- determinata anche dalla paura di essere contagiato, visti i sintomi della compagna – che aveva portato l’imputato ad andare via dall’appartamento di Furci siculo, nel tentativo di imbarcarsi per raggiungere la sua famiglia in Calabria. Ma a tornare indietro lo avevano indotto proprio i suoi familiari, facendo appello al suo senso di responsabilità, per impedirgli di lasciare sola la donna anche lei lontana dai suoi e non in buone condizioni di salute. E il ritorno c’era stato.

La reazione all’angoscia

Per la Cassazione è la dimostrazione che il ragazzo aveva cercato di “reagire”, alla sua angoscia “In un frangente storico drammatico – scrivono i giudici – in cui l’umanità intera è stata chiamata, praticamente dall’oggi al domani, a resistere ad un pericolo sino a quel momento sconosciuto, invasivo ed in apparenza inarrestabile, De Pace ha vissuto un disagio psicologico, poco a poco evoluto in ansia e, quindi, in angoscia, per attutire il quale ha pensato (in questo senso depone, tra l’altro, il contenuto dei colloqui intercorsi, in quelle ore, con la sorella ed il cognato) di raggiungere i genitori ed i fratelli, a costo di sottrarsi all’adempimento dei doveri di assistenza e solidarietà verso la compagna di vita”. Una scelta, benché inaccettabile – come sottolinea la Suprema corte – che potrebbe aver rappresentato, “nella sua distorta prospettiva, soluzione obbligata stante l’estrema difficoltà, per non dire impossibilità, di accedere a strutture sanitarie o di ricorrere ad ausili che travalicassero la sfera della mera consulenza telefonica o, comunque a distanza”. Questo il corretto inquadramento delle azioni precedenti il delitto, non dunque “un tentativo di fuga” prontamente “abdicato” come sostenuto in appello.

Gli effetti dell’isolamento e l’assenza di aiuti

Per sgombrare il campo anche dal dubbio che si sia trattato di un delitto di genere, la Cassazione dà un peso al legame solido che univa i due fidanzati come le rispettive famiglie. I giudici del rinvio dovranno ora verificare se davvero si può ascrivere all’imputato di non avere “efficacemente tentato di contrastare” lo stato angoscia del quale era preda e la fonte del disagio evidentemente rappresentata dal sopraggiungere dell’emergenza pandemica. Già in sede di merito i giudici, con l’aiuto dei periti, hanno escluso la capacità di intendere e volere, anche transitoria, valorizzando al contrario l’efferatezza del delitto. Mentre la condizione di ansia, degenerata in angoscia nella quale si trovava De Pace – aveva avvertito la Corte di merito – non può escludere nè diminuire l’imputabilità. Ora la Cassazione offre una diversa chiave di lettura. Bisogna tenere conto “più che degli stati emotivi, in sè considerati – della causa che ha provocato la condizione di agitazione e, inoltre, ha ostacolato la pronta attivazione di quei presidi, di ordine psicologico, affettivo, relazionale, sanitario, diretti a mitigarne gli effetti ed a prevenirne l’escalation”

Fonte: Il Sole 24 Ore