Una donna su quattro subisce molestie a lavoro. Violenza verbale e mobbing le più diffuse
Violenze verbali e mobbing gli episodi più diffusi
Ma in cosa consistono gli episodi di violenza riferiti? Secondo il campione intervistato, la forma di violenza più diffusa è quella verbale (56%), al secondo posto il mobbing (53%) e al terzo posto, distaccato, l’abuso di potere (37%). Chiudono la classifica la violenza fisica (10%), lo stalking (6%) e la violenza online (2%). Le molestie sessuali sono percepite come la forma di violenza più grave dal 52% del campione, seguite al secondo posto dal mobbing (37%) e dalla violenza fisica (34%). La percezione generale è che le donne subiscano maggiormente quasi tutte le forme di violenza rispetto agli uomini, ad eccezione della violenza fisica (il 32% del campione pensa che la subiscano più gli uomini, rispetto al 25% che pensa che a subirla siano più le donne) e del bullismo (20% contro 17%).
Esiste poi il fenomeno delle cosiddette “microaggressioni”: più di 1 donna su 4 ha subito sguardi (27%) o avances (29%) inappropriate sul luogo di lavoro. I principali responsabili delle micro-aggressioni sono i colleghi (38%) e i capi uomini (37%), seguiti a notevole distanza dai clienti uomini (14%) e dalle colleghe donne (12%).
Il silenzio di chi subisce e le conseguenze
Come reagiscono le persone di fronte a questi episodi di molestie? Nel report sono raccolte anche 140 testimonianze dirette e anonime, che contribuiscono anche ad analizzare questo aspetto e a contrastare quella vittimizzazione secondaria che troppo spesso sposta l’asse della colpa in base a come e quanto le vittime hanno reagito all’abuso. La verità è che le persone reagiscono in modi diversi, anche in base all’ambiente in cui lavorano o al ruolo che occupano. Dalle testimonianze emergono tre scenari principali: c’è chi continua a lavorare senza raccontare ciò che ha vissuto, chi si confida o denuncia, ma senza che ne consegua alcuna presa in carico da parte dell’azienda, e chi, invece, trova supporto da parte di questa, che prende provvedimenti in merito all’accaduto. Le prime due situazioni sono le più comuni. Nella maggior parte dei casi, chi subisce abusi o violenza non ne parla con nessuno. Questo accade per varie ragioni: la vittima può sentirsi profondamente ferita, bloccata o inadeguata, e a volte corresponsabile dell’accaduto. In altri casi, è il timore delle conseguenze che frena: una delle ragioni principali è infatti la paura di perdere il lavoro: questo sentimento è condiviso dal 59% del campione, e sale al 62% tra le donne (65% tra le operaie). Il 53% esprime timore di ritorsioni da parte di chi ha commesso la violenza, mentre il 41% pensa che denunciare non servirebbe a nulla. Altre volte, si ha il presentimento che denunciare l’accaduto non porterebbe ad alcuna conseguenza per chi ha commesso la violenza; ci si sente, quindi, impotenti.
Questo porta ad arrivare a dare le dimissioni in seguito agli abusi subiti: secondo il sondaggio WeWorld-Ipsos, lo ha fatto 1 persona su 4 (25%). In questi casi, si scontrano due diritti fondamentali: il diritto al lavoro e il diritto alla libertà da violenze e molestie. C’è poi anche il caso, altrettanto grave, di chi viene licenziata in seguito alle violenze subite sul luogo di lavoro: 1 persona su 7 (14%).
Le azioni da intraprendere
Per contrastare il fenomeno, i lavoratori e le lavoratrici indicano come iniziative più efficaci l’istituzione di sanzioni per comportamenti violenti (37%) o la possibilità di denunciare episodi di violenza tramite linee di segnalazione anonime (32%). Una persona su 4 (25%) ritiene che le aziende dovrebbero offrire accesso a servizi di consulenza psicologica per chi ha assistito e/o subito violenza sul posto di lavoro. Solo il 12% del campione ha identificato come prioritaria l’organizzazione di workshop per sensibilizzare la popolazione aziendale sui vari tipi di violenza di genere. Eppure forse è proprio dalla cultura che bisognerebbe partire per combattere un fenomeno che è reso forte proprio dalle resistenze a riconoscerlo, contrastarlo, superarlo.
Fonte: Il Sole 24 Ore