Vietato giocare, e anche fare sport
Lo sport fa solo guai e i suoi numerosi critici lo avevano capito subito. Le nuove pratiche sportive si diffondono in Italia già prima della Grande Guerra; gli italiani si appassionano dapprima al ciclismo, sport di fatica e sofferenza consono ai tempi, poi al calcio. Ma anche in quegli anni non tutti condividono questa passione e le voci avverse di educatori, filosofi, politici e religiosi si fanno sentire con forza, come ha raccontato lo storico Stefano Pivato nel suo ultimo libro, solido nell’impianto e al tempo stesso di piacevole lettura. Per cominciare i patrioti che avevano forgiato l’Italia unita attraverso il Risorgimento avrebbero di gran lunga preferito la ginnastica e il tiro a segno, fucina di buoni soldati, ai detestati giochi inglesi, accusati di indebolire l’identità nazionale e di alimentare il cosmopolitismo. «A destra e a sinistra non si vede che a dar calci» lamenta infatti un maestro di ginnastica.
Anche alla chiesa lo sport piace poco, tanto da vietare prima e sconsigliare poi la bicicletta ai preti. I vertici del clero vedono nello sport troppo individualismo e voglia di primeggiare sugli altri (oltretutto valori protestanti), troppa attenzione al corpo rispetto allo spirito, un’eccessiva promiscuità. E anche quando gli oratori diventano di fatto centri sportivi, per non perdere il contatto con la gioventù, voci autorevoli continuano a esprimere perplessità, per esempio (chi l’avrebbe detto) don Lorenzo Milani. Come ha testimoniato uno degli allievi della scuola di Barbiana: «All’inizio cercò di avvicinare i giovani alla Chiesa col gioco del pallone, il ping pong e il circolo ricreativo come facevano gli altri preti. Presto però si rese conto che non solo avvicinava una sola parte di giovani ma, soprattutto, che era indegno e puerile per un prete di Cristo abbassarsi a questi mezzi per evangelizzare, ma al contrario proprio la mancanza di cultura era un ostacolo alla evangelizzazione e all’elevazione sociale e civile del suo popolo. Così un giorno il pallone e gli attrezzi del ping pong finirono in fondo a un pozzo che era in mezzo al cortile della canonica e don Lorenzo organizzò una scuola serale per giovani operai e contadini. La scuola era il bene della classe operaia, la ricreazione la rovina; bisognava che i giovani con le buone o con le cattive capissero la differenza e si buttassero dalla parte giusta». Si può essere più chiari? E ovviamente il ragionamento non fa una grinza.
Anche i socialisti, con qualche eccezione tra i soliti riformisti, erano diffidenti: «Sport e socialismo sono due termini in perfetto antagonismo fra di loro» sostengono i giovani (!) del partito; se ci si appassiona allo sport, pratica borghese, ci si dimentica della rivoluzione. Lo sport è l’equivalente dei giochi gladiatori nelle arene dell’antica Roma, uno strumento di distrazione di massa, tanto che i socialisti non esitano a condannarlo in più di un congresso. Anche qui, difficile dar loro torto.
Tutti poi, a qualunque schieramento appartenessero, erano d’accordo nel vietare lo sport alle donne. Il loro alfiere è il barone Pierre de Coubertin, il padre delle olimpiadi moderne: «Noi crediamo che i giochi olimpici debbano essere riservati agli uomini” afferma perentorio, Infatti le donne furono escluse dalla prima edizione (Atene 1896) ed erano solo il 2% degli atleti nell’edizione parigina del 1900. E nonostante i continui progressi, solo alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984 le donne hanno gareggiato in quasi tutte le discipline. Lo sport, sostenevano i misogini, avrebbe portato dritti dritti alla deprecata emancipazione femminile, per via degli abiti succinti (i pantaloncini!), e di una nuova familiarità col proprio corpo, oltretutto generosamente esposto agli sguardi maschili. In questo caso si può (anzi si deve) discutere il loro punto di vista, si capisce, ma certo questi misoneisti vedevano chiaro nel futuro: lo sport, insieme ai viaggi e alla vita di spiaggia, ha avuto un ruolo centrale nel percorso di liberazione delle donne.
Se queste solide considerazioni ancora non vi bastano, pensate che il primo momento di vera popolarità di massa degli sport in Italia si registra sotto il fascismo. Se il giovane Mussolini, socialista rivoluzionario, spargeva chiodi per le strade dove passava il Giro d’Italia, il Duce fu invece un grande sostenitore dello sport. Nell’Italia fascista era uno degli strumenti per costruire l’italiano nuovo sognato dal regime: energico, tenace, combattivo e al tempo stesso disciplinato dagli sport di squadra. Arrivarono i trionfi in diverse discipline (ciclismo, boxe, automobilismo, aviazione) e il calcio s’impose definitivamente sotto la guida di Vittorio Pozzo con le vittorie in due campionati del mondo consecutivi (1934 e 1938), oltre all’oro olimpico a Berlino 1936. Ma sappiamo anche come andò a finire: lutti, cumuli di macerie, un Paese da ricostruire.
Fonte: Il Sole 24 Ore